Il cosiddetto processo Eternit ieri si è concluso dopo un iter lungo e complicato. C’è stata la sentenza ma non la giustizia, come spesso capita quando tra indagini e dibattimento trascorrono decenni. E non c’è stata giustizia per nessuno. Non c’è stata per la memoria delle vittime, non c’è stata per il dolore dei loro familiari, nemmeno per l’imputato. Da qualunque prospettiva lo si voglia osservare, questo è un processo che lascia l’amaro in bocca. Uno di quei processi in cui resta il dubbio che la verità sia diversa da quella che si è accertata in dibattimento. I parenti delle vittime hanno pianto e urlato dopo la lettura in aula del dispositivo. «Vergogna! Vergogna!», hanno gridato. In mattinata davanti al Tribunale avevano organizzato un sit-in.

L’unico imputato, il magnate svizzero ultrasettantenne Ernest Schmidheiny, proprietario degli stabilimenti Eternit in Italia, è stato condannato a 3 anni e sei mesi per omicidio colposo in relazione alla morte di uno solo degli operai dello stabilimento, Antonio Balestrieri (morto il 21 ottobre 2009 per mesotelioma pleurico), mentre per gli altri casi (otto in tutto, cinque operai, due loro mogli e un residente della zona) ci sono state sei prescrizioni e una assoluzione (l’assoluzione ha riguardato il caso di Franco Evangelista, che abitava nei pressi dello stabilimento ma non era un dipendente). Per l’imputato la Procura aveva proposto la condanna a 23 anni e 11 mesi per omicidio volontario plurimo con dolo eventuale, ritenendo che il magnate fosse a conoscenza dei rischi provocati dall’amianto e del fatto che nello stabilimento di Bagnoli si stessero verificando episodi preoccupanti per la salute dei lavoratori adottando interventi ritenuti esigui per tutelare la salute di chi era esposto all’amianto. Eppure sin dagli anni ’40 diversi studi hanno dimostrato la potenza cancerogena dell’amianto, anche detto Eternit, accertando che sbriciolandosi diventava polvere sottile al punto da essere invisibile ma pericolosa al punto da essere letale.

Nelle fabbriche si depositava sulle tute degli operai e nelle case sulle mani delle moglie che lavavano quelle tute. Una volta inalata, si infilava nei tessuti molli del corpo generando una malattia capace di restare per anni nell’ombra e poi manifestarsi con tutti i suoi dolorosi effetti, cancri e malattie respiratorie croniche. In Italia l’amianto è stato messo al bando soltanto con la legge 257 del 1992. Per le morti degli operai di Bagnoli le indagini furono avviate nel 2004 e il processo, inizialmente incardinato a Torino, arrivò a Napoli nel 2019 dopo la pronuncia del giudice torinese dell’udienza preliminare che aveva superato un’eccezione dei legali dell’industriale uscito per prescrizione da un altro processo con un capo di imputazione diverso ma imputato a Novara per morti da amianto e a Torino per disastro ambientale. Nel primo processo torinese si decise di derubricare il reato da omicidio volontario a omicidio colposo. Insorsero i familiari delle vittime, parti civili assieme a una serie di associazioni tra cui l’Osservatorio nazionale amianto (Ona) di Ezio Bonanni rappresentato dall’avvocato Flora Rose Abate e l’associazione Mai più Amianto.

Gli stessi familiari e le stesse associazioni che ieri hanno lasciato il tribunale tra le lacrime e la delusione dopo la sentenza pronunciata dai giudici della seconda sezione della Corte d’assise. «È una sentenza che lascia l’amaro in bocca soprattutto perché non siamo sicuri che la realtà processuale coincida con la realtà storica dato il lungo tempo trascorso», ha commentato l’avvocato Elena Bruno, legale dell’associazione Mai più Amianto. «La vita di mio padre per i giudici vale 3mila e 300 euro, ridicolo», è stato l’amaro commento di Ciro Balestrieri, figlio di Antonio, una delle vittime. Delusione anche nelle parole dell’avvocato Flora Abate: «Come Ona onlus andremo avanti. Aspettiamo di leggere le motivazioni per capire i passaggi che ha fatto la Corte per arrivare a questa decisione di condannare l’imprenditore per colpa cosciente, poi valuteremo come eventualmente impugnare la decisione». Valuterà un ricorso anche l’avvocato Astolfo Di Amato, legale di Schmidheiny: «Impugneremo certamente la decisione – ha commentato – , comunque è motivo di soddisfazione il fatto che sia stato escluso il dolo».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).