La ricerca di accordi per gli organi di governo a Bruxelles e Strasburgo procede, ma sembra un ballo sulla tolda del Titanic. Si parla troppo di Europa e pochissimo di europeismo, troppo di Unione e pochissimo di un popolo europeo disunito e smarrito. Pochi giorni fa ha votato solo la metà dei cittadini, e di quella metà solo il 60 per cento è a favore del progetto europeo. Una minoranza di un continente sempre più accerchiato. Russia, Cina, Iran. Terrorismo, guerre, attacchi commerciali, infiltrazioni di pirati informatici. Scrive Angelo Panebianco: “L’Ue, abituata a funzionare a basso regime, rischia oggi come non mai”. E non solo per i possibili successi di Trump e Le Pen, o per il peso del partito filorusso nei paesi democratici. C’è di più e di più profondo.

È l’incapacità di cercare incontro e condivisione, di superare muri per affermare valori. Le deboli democrazie degli anni ’30 sono il paragone più evocato. Di certo, è qualcosa che attraversa le nostre società e ne segna la crisi più acuta, quella che non si vede. Riguarda la politica, e il recinto italiano ne è la conferma. Come altro si può definire la diatriba personalistica e suicida nel campo riformista, se non come l’anteporre ad ogni costo se stessi ad ogni progetto? Ma non c’è solo la politica. Il Censis analizza da tempo la tendenza sempre più patologica che dal benefico soggettivismo degli anni ’60 porta al “narcisismo di chi sta solo e chiuso in sé stesso”, alla malattia di “un paese in cui nessuno vede la solitudine di chi ti sta accanto” (definizioni di Giuseppe De Rita). È una questione di persone, prima ed oltre che di istituzioni. Quando abbiamo smarrito la capacità di unire e di unirci? La politica, e prima ancora la vita quotidiana, è contaminazione e sintesi fra diversi. Invece, il bene-rifugio sembra esser diventato il mito dei nuovi nazionalismi, dell’autonomia differenziata, del municipalismo. A livello di economia internazionale, anche la scorciatoia dei confini e dei dazi esprime questo riflesso mentale.

Chiudere le frontiere e imporre gabelle a chi esporta merci e tecnologie sono misure profondamente difensive. Viene da pensare ad almeno due decenni di campagne moralistiche contro la globalizzazione, accusata di fare da levatrice agli interessi di pochi. In realtà, oltre a ridurre in modo consistente la povertà, questa nuova dimensione dell’economia mondiale è stata veicolo di scambio, di integrazione e connessione. Il mondo occidentale era democrazia e pluralismo, incontro dei “grandi” come fulcro di decisioni forti e strategiche. Oggi cos’è? Ex Grandi che non decidono sulle grandi cose”, titola il Riformista. L’Europa era euro, Schengen ed Erasmus, progetto di istituzioni, debito e difesa comuni. Oggi cos’è? Un consesso dove il diritto di veto prevale regolarmente sul dovere di scelta, o peggio un tram per ottenere vantaggi senza cedere nulla del proprio potere. L’Italia era partiti, sindacati, comunità religiose e legami parentali, compagni di scuola e di lavoro. Oggi cos’è? Una gigantesca riunione di condominio dove conta il proprio pianerottolo, e il resto è solo pretesto per un litigio.

Crederci. Fare. Crederci e fare insieme, rinunciando a qualcosa di sé stessi. Persino nel linguaggio dei leader, l’“io” prevale costantemente sul “noi”, e la parola identità è interpretata come barriera verso gli altri. Eppure, Stati Uniti d’Europa non era il nome di una “lista di scopo” (infelice definizione auto-affondante) ma il progetto di Filippo Turati ed Ernesto Rossi. Il loro sogno. Guardare oltre la siepe leopardiana, connettere gli altri al nostro pensiero e al nostro sogno può essere la strada per salvare i sogni di chi è venuto prima di noi. Nelson Mandela diceva che “se vuoi far pace con il tuo nemico, devi lavorare con lui, e allora diventa il tuo compagno”. E forse Mandela aveva motivi di rancore superiore a quelli di Calenda per Renzi. O a quelli che abbiamo noi per il nostro vicino di casa o il nostro collega di lavoro.

Sergio Talamo

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