Per noi quell’accordo resta ancora valido anche se, ovviamente, i fatti di questi mesi hanno fornito un grosso assist all’azienda che lo userà in fase negoziale per rivederne i contenuti.
Resta sul tavolo anche il memorandum siglato prima di Natale dalla multinazionale franco-indiana con il governo che prevede la costituzione entro la fine del mese di una nuova società mista, in cui entrerebbero oltre alle banche creditrici (Intesa San Paolo, Unicredit, Bpm e Cassa Depositi e Prestiti) anche lo Stato (attraverso Invitalia). Un piano d’investimenti che dovrebbe aggirarsi intorno a 3,3 miliardi. Di questi, 2,4 miliardi per il riassetto dello stabilimento esistente e 900 milioni per l’installazione dell’impianto di pre-riduzione (il governo vorrebbe gestirlo attraverso una newco) con l’istallazione di 2 forni elettrici. Un piano che presenta una serie d’incognite, sia sul piano industriale, ma anche su quello occupazionale e ambientale, che sembra mosso più da esigenze interne alla maggioranza, che da una reale intenzione di rilancio del sito.

Ad esempio non si capisce da dove nasca l’idea (se non dall’esigenza di assecondare qualche campagna elettorale locale) di cambiare il ciclo produttivo della fabbrica andando certamente a danneggiare la portata occupazionale, senza miglioramenti in termini ambientali e con nessun reale rinnovamento tecnologico rispetto alla procedura di riesame dell’Autorizzazione Ambientale sulla base della Valutazione preventiva del danno sanitario entro i 6 milioni di tonnellate di produzione richiesta dal ministero dell’Ambiente (e in parte già consegnata con risultati positivi). Altrettanti dubbi pone un piano industriale che fissi oggi l’obbligo di produzione per un’azienda, come ai tempi dei piani quinquennali sovietici o del ventennio italiota di triste memoria, di 8 milioni di tonnellate fra tre anni, in una totale e sempre più repentina incertezza del mercato e delle strategie geopolitiche a esso correlate. Tutti dimenticano che 1000 occupati per milione di tonnellata è una proporzione che vale per l’acciaio prodotto con altoforno.

Il guaio è che non abbiamo vera evidenza della trattativa in cui saremo coinvolti, forse dalla prossima settimana, (il countdown di fare un accordo in 3 settimane dopo anni perduti nella propaganda), ovvero per la data fissata dell’udienza presso il Tribunale di Milano. Significa dare certezza al piano ambientale, azzerare gli esuberi annunciati, rilanciare la produzione affinché sia sostenibile. Esattamente come era l’accordo del 6 settembre 2018. Penso che in questa vicenda la politica abbia già fatto troppi danni, non solo allo stabilimento tarantino ma all’intera economia italiana. Le vicende degli ultimi mesi sono finite sulle prima pagine dei quotidiani di mezzo mondo, dando l’idea di un Paese allo sbando: chi verrebbe a investire in un Paese in cui si cambiano le regole ogni 6 mesi e dove non c’è certezza di un accordo sottoscritto in sede governativa?

Ecco perché ritengo che in questa partita il governo debba tornare ad avere un ruolo da garante dell’accordo da noi sottoscritto e del quadro normativo precedente in cui è stato raggiunto se vuole veramente rilanciare il sito di Taranto sul piano industriale, ambientale e sanitario. Se ognuno facesse la propria parte, questa vicenda potrebbe assumere i contorni di un riscatto e di un rilancio del Sud e del Paese. Ma per farlo c’è bisogno di uomini di buona volontà e con un briciolo di competenza. Mi auguro che gli italiani si accorgano di quanto stia facendo male al lavoro e all’ambiente la demagogia anti-industriale e l’ignoranza: se la tassassimo azzereremmo il debito pubblico, specie in un momento in cui da un movimento in dissolvimento si stanno contagiando altre forze politiche e organi di informazione. In Italia lo scudo politico lo hanno questi gruppi dirigenti: sanno che spararla grossa è garantito da un’immunità diffusa e consolidata su un senso comune inquinato quanto l’Ilva.