La decisione del tribunale del riesame di Taranto di bloccare lo spegnimento dell’altoforno della società (ex Ilva), in amministrazione straordinaria, ha fatto tirare un sospiro di sollievo a tutti coloro che sono attenti e preoccupati sulle vicende dell’industria e del lavoro. Ma un sospiro non basta per dire che si è iniziato a respirare, in quanto la vicenda dell’ex Ilva propone ed evidenzia qualche cosa di profondo che, pur auspicando il meglio, non potrà essere affrontato dalla singola trattativa che necessariamente dovrà ora aprirsi tra Governo, Arcelor-Mittal, sindacato e istituzioni territoriali.

Le tensioni, le contraddizioni, le incertezze che hanno accompagnato il declinarsi dei problemi legati alla produzione dell’acciaio nello stabilimento di Taranto e le questioni ambientali e sanitarie che solleva la presenza in città di un macro impianto come quello dell’Ilva, non ha solo evidenziato le difficoltà in cui versa questa azienda e i problemi che ha generato in un territorio e se leghiamo questa situazione alle molteplici situazioni di crisi aziendali, si evidenzia l’assenza di un disegno di politica industriale e la mancanza di una strategia di ricollocazione dell’industria e dell’economia italiana nei nuovi scenari internazionali.

Stiamo vivendo il passaggio a un nuovo ordine mondiale in cui le vecchie modalità ed egemonie sono messe in tensione e sono spinte a mutare le posizioni e gli equilibri. Gli spazi conquistati vengono messi in discussione dall’emergere, da parte dei Paesi economicamente più forti, di strategie che mutano lo scenario economico e i livelli di competizione. Ci si deve rendere conto che siamo ormai entrati in quella che viene definita “globalizzazione 4.0”. In quasi tutti i Paesi crescono conflitti sociali molto aspri e i timori dei cambiamenti dell’ambiente (riscaldamento, inquinamento), del lavoro e dei sistemi di protezione sociale, determinano incertezze e paure rispetto al progresso tecnologico, alle conseguenze dei mutamenti geopolitici o al crescere di conflitti e contrasti politici.

Secondo me, i decisori italiani che operano nel mondo degli affari sono consapevoli di quanto sta succedendo e ne sono preoccupati e per questo evitano il rischio innovativo, anche perché non vedono nella politica italiana l’emergere di una vera strategia di politica internazionale. Il dibattito politico sembra aver scordato che l’Italia è ancora il secondo Paese manifatturiero d’Europa e si continua a discutere su “pannicelli caldi” come il reddito di cittadinanza, quota cento e altre questioni. Quando si uscirà da questa condizione? Quando si inizierà a veramente a ragionare su quale ruolo la nostra economia vorrà giocare nella nuova fase della globalizzazione? Continuiamo a cullarci sul made in Italy, sul turismo, sull’arte e la cultura che sono cose importati se vengono collocate in uno scenario più complesso che abbisogna che le poche nostre grandi imprese che operano sullo scenario internazionale siano messe in condizione di competere con le grandi corporation.