Agli albori della fase 2, si rincorrono le domande su quale sarà il futuro che attende i Paesi al termine della pandemia. Un interrogativo lecito se consideriamo che le decisioni assunte nel periodo emergenziale finora hanno avuto un forte impatto sullo svolgimento della nostra quotidianità. La pandemia apre anche una riflessione su come ripensare le metropoli per vincere le sfide delle green city: dagli sprechi alimentari alla gestione del ciclo dei rifiuti e del riciclo, fino all’inquinamento e alla mobilità. Porre le basi per una spinta maggiore verso l’economia circolare può rappresentare un’occasione per portare avanti il tanto decantato “green city approach”.

Prima di tutto però, in questi tempi di crisi, come ha scritto lo storico israeliano Yuval Noah Harari sulle pagine del Financial Times «abbiamo da fare due scelte: la prima è tra sorveglianza totalitaria e responsabilizzazione dei singoli. La seconda è tra isolazionismo e solidarietà globale». Certo in un’epoca in cui abbiamo affidato alla Rete i nostri dati personali, la questione della sorveglianza pare quasi amaramente superata, frutto di una scelta, non sempre consapevole, ma ormai già compiuta in favore di social e motori di ricerca, capaci di affinare sempre più efficacemente livelli di profilazione grazie alle informazioni relative alla nostra identità, gusti o pensieri da noi stessi cedute in cambio dell’utilizzo del servizio offerto. Ai tempi dell’emergenza sanitaria, l’introduzione di nuove applicazioni di tracciamento a fini di tutela della salute sembra però riacutizzare la questione aprendo un aspro dibattito che vede contrapposte due tutele fondamentali: privacy e salute pubblica. Ma è realmente necessario rinunciare all’una per salvaguardare l’altra? Come rileva la Commissione UE nel suo “Toolbox” anti-Covid-19, e nelle relative linee guida, «un fattore determinante affinché gli individui si fidino della app è dimostrare che sono loro a rimanere in controllo dei loro dati personali».

Ecco che allora trasparenza e rispetto dei diritti sono condizione imprescindibile per queste applicazioni. Del resto, come evidenzia l’European Data Protection Board «le app di contact tracing non richiedono il tracciamento della localizzazione di singoli utenti», e anzi «possono funzionare senza diretta identificazione degli individui». La fiducia degli utenti quindi sembra un elemento essenziale per l’efficace funzionamento di questi strumenti tecnologici. In caso contrario verrebbero incentivati comportamenti “fraudolenti”. Ma se non è stata la pandemia a chiederci di sacrificare la nostra privacy, già compromessa dalle esigenze di “socializzazione” digitale, ci ha comunque posto dinanzi a una scelta complessa, quella tra isolazionismo e cooperazione internazionale. Una questione da cui dipende il futuro economico dei Paesi. D’altronde le marcate differenze in termini di digitalizzazione hanno già messo a dura prova alcuni Stati. L’Italia, ad esempio, si è trovata impreparata a gestire le mutate esigenze lavorative e scolastiche, con l’emergere di nuove e pesanti diseguaglianze tra le fasce più marginali della popolazione, quelle che non possono permettersi uno o più computer con i quali far studiare i propri figli, o una connessione internet perché dislocate in zone a basso sviluppo tecnologico.

La pandemia ha accentuato anche il distanziamento sociale. Secondo il New York Times, infatti, in questo periodo emergenziale, molti lavoratori a basso reddito hanno continuato a spostarsi, mentre quelli con redditi maggiori sono rimasti a casa e hanno di conseguenza limitato la loro esposizione al Coronavirus. Queste evidenze dimostrano come il livello socioeconomico rischi di influenzare moltissimo la probabilità di ammalarsi. Circostanza questa sottolineata anche a livello scientifico da uno studio dell’Università di Chicago con riferimento al mercato del lavoro degli Stati Uniti, il quale ha mostrato come vi sia una relazione positiva tra livelli di reddito e probabilità di lavorare da casa. Un paradosso se pensiamo che è sulle spalle della classe operaia che si regge oggi tutta l’infrastruttura essenziale della nostra società. In Italia, secondo un’analisi, pubblicata ad aprile su Etica ed Economia, solo il 30% dei lavoratori italiani ha potenzialmente la possibilità di lavorare dalla propria abitazione.

Disaggregando questi dati, lo studio rileva che lo smart working è un’opzione praticabile per il 60% dei lavoratori che occupano le posizioni di vertice del mercato del lavoro ed è impraticabile per una percentuale che varia dal 100 al 95% di coloro che occupano le posizioni più basse della struttura occupazionale. Conclusioni che però non possono essere generalizzate quando a lavorare da casa non sono manager o broker, ma anche precari o partite iva, costretti a estenuanti orari lavorativi in spazi casalinghi angusti e magari con figli da seguire a a cui, tra l’altro, garantire la continuità didattica. Riflessioni queste che non riguardano solo profili di etica comportamentale, ma che incidono sul sistema produttivo di ciascun Paese.

Ecco quindi che aziende e istituzioni sono messe alla prova: quelle che hanno riconosciuto responsabilità e innovazione come valori fondativi nell’esercizio dell’impresa, non per obbligo di “rendicontazione di informazioni finanziarie”, ma per scelta consapevole, sapranno vivere questa fase di cambiamento delle relazioni sociali in modo più dinamico, dando un impulso eccezionale alla tenuta e al rinnovato sviluppo del sistema economico e finanziario del nostro Paese, contribuendo anche, per quanto possibile, al superamento delle forti discriminazioni sociali accentuatesi a causa della crisi della pandemia. Non dimentichiamo che «uno squilibrio tra ricchi e poveri è la malattia più antica e più fatale di tutte le repubbliche» (Plutarco).