E la mascherina? Al cinema, gli spettatori in sala devono indossarla. Chi invece sta dentro lo schermo, la porta di rado (fanno eccezione ad esempio, poche scene del giapponese Drive My Car e del norvegese La persona peggiore del mondo. Non per così poco, entrambi vincitori a Cannes). Molti nuovi film, prodotti in questa triste epoca pandemica e ambientati ai giorni nostri, fanno finta di niente. E per ovviare a una grandissima rottura di scatole (recitare in FFP2 non è gratificante né facile), pigiano il pedale della finzione e si scordano del virus. Vorremmo farlo tutti, ma ancora non si può.

Lo sa bene il cinema documentario. Forte del suo impagabile impegno a raccontare il presente, a posteri e contemporanei. Oltre a spiegare il passato, ai contemporanei e ai posteri. Il futuro invece è fantascienza, più o meno lungimirante. Il Festival dei Popoli fa, dal 1959, la sentinella del mondo. Per la sua 62esima edizione – a Firenze, dal 20 al 28 novembre – la storica kermesse snocciola grandi temi, spalmati su 80 documentari. «Il lavoro è stato enorme – dice Alessandro Stellino, direttore del Festival –. Dall’inizio dell’anno, abbiamo visionato oltre 1400 film per poi trarne un distillato». Di Covid si parla subito, con il titolo inaugurale Diarios de Otsoga dei portoghesi Miguel Gomes e Maureen Fazendeiro: «Un festoso omaggio al cinema, che racconta le vicissitudini di una troupe durante la fase più acuta delle restrizioni». Poi, il susseguirsi di altri seri problemi: fra i tanti la questione femminile, l’ambiente, le armi, l’avvenire per le nuove generazioni. Oltre a un po’ di doverosa leggerezza (la folle, divertente famiglia di Charm Circle diretto da Nira Burstein), meraviglia (Caveman. Il gigante nascosto di Tommaso Landucci, su una scultura realizzata a 650 metri di profondità) e bellezza.

È questo il caso di Lawrence di Elisa Polimeni e Giada Diana, girato a San Francisco, dedicato al mito letterario di Lawrence Ferlinghetti. Sul versante musica, In the Court of the Crimson King di Toby Amies affronta l’omonimo album dei King Crimson, capolavoro anni Sessanta del rock progressivo. E per chi osserva a distanza l’oscillare di Quota 100, ecco il curioso The Bubble. La regista Valerie Blankenbyl rivela “la più grande comunità di ritiro per pensionati agiati”. «Le opere di finzione possono fingere di non accorgersi. Il documentario no. Perché è cinema dell’oggi, senza travestimenti. Chi lo fa deve essere lì dove accadono le cose», spiega Stellino. Che trova la chiave, in una definizione piena di passione per «il cinema tutto, che insegno (alla Civica Scuola Luchino Visconti, a Milano ndr.)» e con la consapevolezza di come il doc restituisca «potere alla concretezza e alla felicità dell’esserci».

Stare a Firenze è una fortuna, sempre. Di più in questo autunno, dove all’ombelico rinascimentale si affianca l’arte contemporanea più celebrata, con Jeff Koons a Palazzo Strozzi e la mostra diffusa di Jenny Saville. Bellissimo frequentare la città, nei nove giorni di una manifestazione così «radicata a Firenze. Il Festival dei Popoli riflette l’urbanistica e lo spirito cittadino». Importante allora «essere in presenza», dopo che la scorsa edizione si era svolta interamente su web. Ma, conferma Stellino, «pur aspettandoci una forte affluenza, lo strumento online rimane centrale. Sulla piattaforma MyMovies ci sarà una selezione ragionata del nostro programma». La gara c’è. Ed è sempre appassionante, malgrado i puristi professino una espressione artistica che sia oltre la sfida. Per non scontentare troppi, sono previste quattro sezioni competitive: Concorso Italiano, concorsi internazionali per lungometraggi, mediometraggi, cortometraggi. La sensibilità nazionale, si avventura tra le memorie di un Sud affascinante e arcaico (La Zita di Doria e Guadagnuolo), questioni famigliari (la neo paternità, celebrata in Tardo agosto di Cammarata e Foscarini; quella complicata da ragioni politiche in Los Zuluagas di Flavia Montini, dove un figlio torna in Colombia sulle tracce del genitore, ex comandante guerrigliero morto in esilio a Roma) e universali (il territorio bellico di La guerra che verrà in cui, dal vero inferno siriano, il pensiero corre ai “tempi lenti della vita al fronte” di Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati).

La retrospettiva è un focus completo sulla filmografia, da scoprire, della coppia di cineasti francesi Elisabeth Perceval e Nicolas Klotz. Si vedrà anche La question humanine con protagonista Mathieu Amalric, potente opera civile. Klotz la realizza nel 2007, anno di grazia (lo stesso di Lo scafandro e la farfalla di Schnabel) per il meraviglioso attore francese, ora in sala nel confuso bazar di The French Dispatch firmato Wes Anderson. Il nuovo Premio Energie Rinnovabili assegnato a Michelangelo Frammartino – atteso il 24 per una masterclass – equivale a consacrazione per il regista, “fra i più radicali e rilevanti emersi nel panorama internazionale degli ultimi dieci anni”. Quello di Frammartino è (bellissimo) cinema spurio. Un animo fortemente documentaristico, ma è finzione mascherata. Il suo ultimo Il buco, amato a Venezia, poggia sulla accorta ricostruzione di una spedizione speleologica intrapresa mezzo secolo fa. I suoi lavori rientrano «in un’ottica non propriamente documentaria – ammette Stellino –. Ma avrei invitato Frammartino anche a scatola chiusa, per il rigore e la raffinatezza della sua ricerca».

Su di lui, anche una chicca cinefila: «Nel foyer del cinema La Compagnia, casa principale del Festival, presentiamo una mostra legata ai disegni preparatori che Frammartino realizzò per Tarda primavera. Un progetto lungo cinque anni e poi naufragato, in cui il bambino Pinocchio torna a essere un albero». Ennesimo tassello della maledizione del capolavoro di Collodi, che ha colpito tanti. Persino il monumento Francis Ford Coppola. A volte, rimettere insieme i cocci dei sogni infranti tocca alla realtà. E al cinema che la racconta, con pragmatismo e non senza sentimento.