In fondo Zaia ha ragione. Lui voterà per un candidato veneto, non per il generalissimo. Difenderà cioè la natura originaria di quello che è il partito più longevo dell’attuale parlamento e che è stato il fenomeno politico più innovativo della Seconda repubblica. Una destra che ha governato con la destra ma è stata corteggiata dalla sinistra, fino a diventarne la dalemiana “costola”. Una destra – la sola destra – a cui non sia mai stato chiesto di abiurare il fascismo, perché nessuno ne ha mai messo in dubbio l’antifascismo (almeno fino a tempi molto recenti). E, soprattutto, un partito che, nel corso della sua storia, ha osato sfidare, uno dopo l’altro, tutti i santuari della Repubblica, le sue istituzioni, i suoi valori fondativi.

Un miracolo, se si pensa che da Carlo Cattaneo è arrivato fino a Roberto Vannacci, da Gianfranco Miglio fino a Claudio Borghi. E, tuttavia, un partito che, a differenza di molti altri, sarebbe superficiale leggere come l’ennesimo caso di camaleontismo, l’ennesimo guscio vuoto del trasformismo populista. Perché? Perché, pur con i suoi giri di valzer, pur saltando da Berlusconi a Conte e a Meloni, pur abbandonando il Senatur secessionista per il sovranista Salvini, la Lega conserva ancora oggi un nocciolo identitario come non possono vantarne avversari e competitori. Un nocciolo duro, perché intreccia politica e società, Stato e territorio.

La nascita e il boom della Lega

Emersa nella Terza Italia delle migliaia di arrembanti imprese familiari, la Lega delle origini si era nutrita del declino della Dc, stroncata, per parte sua, dalla crisi economica del tardo Novecento, oltre che dai processi di secolarizzazione. Fatto sta che, nelle amministrative del 1990, era già il secondo partito della Lombardia. E che quattro anni dopo, alle politiche, fece eleggere centottanta parlamentari. La Dc non c’era più. E fu questo il primo santuario repubblicano che Bossi e i suoi conquistarono. Ma era soltanto l’inizio. Dando rappresentanza a ceti produttivi e professionali ostili alle politiche governative e insofferenti della pressione fiscale, la Lega finì per attaccare a testa bassa la natura stessa dell’Italia del dopoguerra, i suoi totem, le sue tradizioni culturali. E in primo luogo fece guerra alla “questione meridionale”, cioè al discorso pubblico più antico e condiviso del paese. La Lega stracciò questa narrazione e, capovolgendo il senso comune, contrappose alla questione meridionale la questione settentrionale. Polemizzò con le provvidenze a favore del Sud, denunciò il furto delle ricchezze del Nord, contrappose ai meridionali assistiti il produttivo popolo del Lombardo-Veneto.

Dallo stato centralista alla secessione 

Poi fu la volta dello Stato centralista. E cadde un altro tabù. Fin dall’età liberale, e tanto più con il Ventennio, il paese aveva imboccato la via del centralismo. E anche la Prima repubblica aveva gelosamente coltivato una struttura produttiva dominata dall’impresa di Stato e una società controllata dalle reti ministeriali. La Lega ruppe l’incantesimo. La sua parola d’ordine fu un decentramento radicale, poi la riforma federalista, infine la secessione. Dopo oltre un secolo, l’ineluttabilità del centralismo si scioglieva come neve al sole, e la stessa sinistra fu spinta a quella riforma del Titolo V che intendeva competere elettoralmente con la Lega (ciò che non accadde) e che, per colmo di ironia, avrebbe invece legittimato l’attuale battaglia leghista per l’autonomia differenziata, quel che oggi la medesima sinistra definisce come un catastrofico progetto di divisione del paese.

La religione della Padania

Sotto i colpi della Lega, del resto, non veniva meno soltanto il dogma dello Stato centralista. Veniva meno lo Stato nazionale. Un altro santuario, forse il più illustre, il più denso di valori. I Lumbard avevano fatto fortuna ergendosi a rappresentanti di una parte dello Stato nazionale: avevano sostituito lo Stato nazionale con i territori, con il Nord. Contrapponevano alla nazione italiana la nazione padana e ne sottolineavano i caratteri identitari, la forza delle comunità locali, i modi di vita. Nasceva una subcultura separata. La Lega inventò la religione della Padania. Ne inventò simboli e rituali, le camicie verdi, il prato di Pontida, Alberto da Giussano. Ammainò la bandiera tricolore sostituendola con il Sole delle Alpi, la bandiera del Nord. Brutalizzò la capitale del paese, che divenne “Roma ladrona”. La stessa egemonia culturale della sinistra finiva alle ortiche.

Bossi, la canottiera e l’etnicismo 

Con disprezzo spavaldo della torre d’avorio dei chierici, la Lega era popolare, plebea, senza lustrini. Bossi si presentava in canottiera ai summit con Berlusconi. Il linguaggio assumeva forme vernacolari. Il politicamente corretto veniva sbeffeggiato, non ci si fermava neppure di fronte alla sensibilità religiosa degli italiani, una volta al Senatur capitò di dare del “nano e ignorante” al Papa. E intanto il culto dei territori scivolava nell’etnicismo. Venivano trattati senza troppi riguardi, insieme ai meridionali, gli albanesi, i musulmani, gli africani. Veniva smentita ogni favola sugli italiani brava gente. La pressione migratoria diventava un nodo ideologico, preparando l’approccio securitario di Matteo Salvini. Ma la Lega di Salvini, malgrado il salto dal partito territoriale al partito nazionale, veniva pur sempre da quella società fattiva e misoneista delle pianure e delle valli del Nord, da quelle popolazioni che pretendevano e pretendono di decidere da sole il proprio destino, mescolando liberismo, individualismo, regionalismo, xenofobia, antipolitica.

Il Sud, lo Stato centralista, il welfare, la nazione, il solidarismo, tutti quanti i valori del paese – e ogni traduzione politica di quei valori – sembravano finire nel grande falò della Lega. Un’anomalia? Una stagione destinata ad esaurirsi? Forse andrebbe usata cautela nel giudizio. La stessa permanenza del fenomeno, la sua capacità di passare attraverso stagioni molto diverse, il suo cambiar pelle da Bossi a Salvini, una cosa dimostrano. Che quel nocciolo duro non era e non è soltanto l’invenzione di un abile ceto politico, ma rappresenta un segmento non piccolo del paese – e certamente decisivo sul piano strutturale.

Oggi Zaia e Vannacci possono anche essere il segno delle tensioni interne alla Lega, possono rappresentarne versioni reciprocamente incompatibili, ma il filo rosso di questa storia suggerisce che, al di là della politica politicante, esiste un’Italia estranea a buona parte del discorso pubblico ufficiale. E che neppure la migrazione – quella già avvenuta, quella attesa alle prossime europee – di una parte di suffragi dal partito di Salvini al partito di Meloni garantisce che certe aspirazioni, certe tensioni, certi nodi materiali e culturali si siano, per così dire, addomesticati. Quel che la Lega insegna è la problematicità della narrazione corrente del paese. Né la questione meridionale, né le istituzioni centrali e neppure l’identità nazionale andrebbero date per scontate. Esiste un pezzo del paese che non le ama o non se ne cura. Definirlo moralisticamente come il paese “profondo” non sembra saggio. Meglio sarebbe capirne le ragioni e dargli risposte politiche.