Altro che sovranista. La Lega Nord per l’indipendenza della Padania (questo il nome completo) era secessionista e quell’idea brutale della secessione era nell’aria. Ed era un’idea da guerra civile perché – come disse Abraham Lincoln, Presidente degli Stati Uniti, quando la Confederazione degli Stati Sud si dichiarò indipendente – non si esce dallo Stato unitario. E fu la più sanguinosa guerra civile di tutti i tempi. Da noi in Italia, un secolo e mezzo più tardi, in definitiva ci arrangiammo e Bossi rinunciò alla secessione per andare al governo con Berlusconi, con un programma ispirato ai federalisti italiani e a Carlo Cattaneo.

L’ideologo di riferimento era il mite professor Gianfranco Miglio che puntava all’Italia federale ispirandosi a Ludwig von Mises, a Max Weber e a Thomas Hobbes. Ma quando il primo governo Berlusconi cadde per l’avviso di garanzia pubblicato in prima pagina sul Corriere Della Sera, Bossi si scatenò contro il leader di Forza Italia chiamandolo Berluskaz e altri epiteti sprezzanti.

Dopo gli anni di pacificazione la Lega Nord tornò nella coalizione di centrodestra e fu così che conobbi Umberto Bossi: ero candidato al Senato per Forza Italia a Brescia, una città di sinistra con una provincia molto leghista.

Ero partito odiandoli cordialmente anche per l’odioso slogan “Roma ladrona” (avevo avuto parecchi problemi a circolare con una targa romana) ma in quella campagna elettorale del 2001 vidi i leghisti muoversi nel loro ecosistema politico e umano.

Ed erano, con un certo mio stupore, umanamente più simpatici che enfatici di quanto immaginassi. Mi colpì la quantità di giovani pediatri e di donne nelle loro file e si sentiva la connessione di quei leghisti nei paesi e della provincia con la gente e una disciplina simile a quella delle Feste dell’Unità.

In una valle chiusa e buia di cui non ricordo il nome, mi trovai in mezzo alla marea dei leghisti nordisti che non avevano niente, ma proprio niente a che fare con quelli che oggi seguono Matteo Salvini con accento siciliani o abruzzesi.

Bossi era sul palco e fece un comizio antifascista ripetendo mille volte di voler continuare ciò che avevano iniziato i partigiani. Sembrava davvero di essere a una commemorazione dell’Anpi di allora. E poi inaspettatamente l’Umberto, come lo chiamavano tutti, si rivolse a me e disse: “Sali, vieni a fare una parola”.

L’espressione fu proprio “fare una parola”: un parlare corto ma adatto alle circostanze. E così parlai da quel palco per pochi minuti, dissi che venivo dalle file socialiste dove avevo abitato dal 1957 e Bossi annuì brevemente per autorizzare un applauso di cortesia perché socialisti erano molto poco popolari.

Oggi le manifestazioni e i discorsi dei leghisti salviniani non solo non hanno nulla che possa ricordare la prima vera Lega un po’ pastasciuttara e un po’ nibelunga, con una confidenza terragnola e boschiva simile a quella dei canadesi.

Non è necessario spendere parole per dire quanto la Lega di oggi sia opposta e persino nemica di quella fondata da Bossi, dopo i primi successi della Liga Veneta. La Lega salviniana è un fritto misto di Marine Le Pen e di Vladimir Putin.

Avevo rivisto Bossi alla buvette del Senato il giorno prima che lo colpisse un grave malanno. L’unico senatore in jeans. Anni dopo, passando davanti alla gelateria dove Jean Paul Sartre e Simone de Beauvoir trascorrevano le estati, sentii il mio nome urlato senza timidezza ed era l’Umberto in vena di chiacchiere davanti a una granita. Non ricordo assolutamente di che cosa parlammo, ma fu un incontro festoso.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.