La città fu scelta perché era perfetta. Hiroshima era una intatta città di provincia che scandiva il suo tempo. Quando il fat boy, la bomba bianca obesa lasciò la placenta del suo aereo, era proprio il momento in cui i bambini in uniforme baciavano le mamme con la merenda nello zainetto. Fat boy volava come un greve fiocco di neve come Humpty Dumpty che si sarebbe frantumato in milioni di atomi furiosi seguiti dal nulla. Mai era accaduto che il nulla occupasse il tutto. Era stato al più un concetto filosofico, ma nessuno aveva ancora visto l’anti-essere sostituirsi all’essere. Non si vedevano, dopo il lampo, feriti o squartati i brandelli insanguinati dei 93 mila che si dissolsero col primo botto. Erano semplicemente mai esistiti, salvo alcune scarpe.

Dove c’era la bambina seduta con lo zainetto, ora restavano due ombre, la sua e dello zainetto. Degli edifici annullati qualcosa restava di acuminato e contorto. Ma non si coglieva pianto, né stupore, perché il nulla non ha suono. Prima della fatale decisione, una direttiva americana aveva diffuso la nuova notizia secondo cui la popolazione civile giapponese, addestrata a resistere, non andava considerata forza combattente. E che the morale, il morale della gente, era un dichiarato obiettivo bellico per una ragione di contabilità e una di calendario.
La ragione principale era di contabilità: finora ogni battaglia di avvicinamento al Giappone era costata decine di migliaia di vittime, americane e giapponesi con corpo a corpo mai conosciuti nella storia militare perché per i giapponesi era impossibile arrendersi. Si era visto a Iwo Jima, a Guadalcanal, Tarawa Midway, Leyte, Okinawa. Per arrivare a sconfiggere e occupare il Giappone sarebbero occorsi almeno un altro mezzo milione di inglesi e un milione di americani, più due milioni di giapponesi, disse Winston Churchill quando oramai la bomba era stata sganciata.

Valeva la pena? Il mondo da allora è diviso ed è difficile che qualcuno approvi l’uso delle bombe atomiche, perché è moralmente scorrettissimo. Proverò io ad azzardare, anzi a ricordare, che dal 1945 in poi non ci sono state più guerre. Non le piccole infinite guerre regionali, ma le grandi sanguinarie guerre che hanno per secoli devastato l’Europa o la Russia, il Giappone o la Cina. Ci fu la pace della Belle Époque fra il 1870 e il 1914 ma furono solo 44 anni, un record. Oggi siamo a 75 anni di pace e ancora dura. Le grandi guerre che hanno insanguinato il pianeta sono cessate, tutte. E chi sostiene che le guerre siano egualmente molte e altrettanto crudeli, non conosce la storia né la geografia. Le due guerre terminate con le esplosioni atomiche e poi con l’equilibrio del terrore fra superpotenze – anche se tu mi uccidi, io prima di morire farò in tempo ad uccidere te – l’Europa, l’America, l’Asia, la Cina, non hanno avuto che guerre limitate. Certo, ci furono la Corea e il Vietnam. Ma il numero delle vittime fu – in proporzione – irrilevante.

«Noi non abbiamo paura della bomba» cantavano i Giganti negli anni Settanta e invece dobbiamo soltanto a quell’ordigno il fatto che siamo per lo più vivi e complessivamente in discreta salute, tanto che l’età della vita umana è cresciuta enormemente fino a far crollare le riserve delle assicurazioni. E gli scienziati? Furono soddisfatti di quel che fecero? Chi sì e chi no. Il nostro Enrico Fermi, fuggito in Usa con una moglie ebrea soggetta alle leggi razziali di Mussolini del 1938, diventò un protagonista del progetto Alamo ed era continuamente scortato, vivendo una esistenza misteriosa e segreta. Chi condanna l’America sostiene in genere che gli Stati Uniti decisero di usare la bomba per spaventare Stalin e rimetterlo in riga. Oggi possiamo dire che già tre anni prima, nel 1942, Stalin era stato dettagliatamente informato del progetto americano dal fisico Iuli Khariton e ordinò immediatamente al suo capo della polizia segreta, Lavrentij Beria, di arruolare tutti gli scienziati atomici sovietici fra cui Igor Kurciatov, Andrei Sakharov e lo stesso Khariton. Ma il primo materiale fu fornito loro dallo scienziato americano Klaus Fuchs che la­vorava al “progetto Manhattan” ma era un informatore russo.

Era avvenuto un cambio etico e militare. Era cioè prevalsa la linea – in entrambi gli schieramenti – secondo cui il morale dei civili è un obbiettivo militare. Poiché i giapponesi erano mostrati mentre si esercitavano alla scherma con i bastoni contro l’invasore, l’amministrazione americana dichiarò la popolazione giapponese obiettivo militare. Prima di Hiroshima inglesi e americani avevano deciso di cancellare la città tedesca Dresda. Il piano fu studiato dal capo dell’aviazione inglese Harris, detto poi Bomber Harris, o Butcher Harris, il macellaio. Tre ondate separate di aerei si avvicendavano sulla città: la prima scoperchiò le case, la seconda le riempì di combustibile e la terza portò la temperatura a trentacinquemila gradi e la popolazione- come dimostrò la commissione d’inchiesta dopo la guerra – ne fu liquefatta. Secondo gli inglesi morirono solo 35 mila tedeschi, ma secondo i tedeschi i morti furono 135 mila, molti di più di Hiroshima e Nagasaki. I morti complessivi del Giappone in cinque anni di guerra fra civili e militari superarono di poco i due milioni mezzo.

L’incidenza delle due bombe atomiche fu irrilevante, non così l’effetto esistenziale, distruttivo e depressivo che travolse l’intera umanità.
Molto di più della bomba atomica avevano terrorizzato il Giappone i bombardamenti di Tokyo usando bombe incendiarie che distruggevano una città di carta, legno, papiro e decorazioni laccate. Stalin, più che sorprendersi per le notizie che gli arrivavano sull’uso delle atomiche americane si preparò ad attaccare l’esercito giapponese in Manciuria e riconquistare le isole contese fin dalla guerra del 1905. A Stalin interessava la sua parte di bottino nel Pacifico, dopo essersi fatto riconoscere a Yalta ciò che aveva già ottenuto da Hitler: Europa orientale, Paesi baltici, Romania, Bessarabia e una mano sui Balcani grazie al maresciallo Tito, ancora suo numero due. I giapponesi spera­vano invece di poter usare il canale sovietico per ottenere una pace onorevole e per questo il ministro degli Esteri del nuovo governo Shinegori Togo fece sapere a Stalin che il Giappone av­rebbe resti­tuito la parte meridionale dell’isola di Sakhalin e le Curili settentrionali. Le risposte di Mosca furono vaghe e includenti.

Il governo di Tokyo capì che non esisteva più spazio per giocare alla politica: il governo giapponese ignorava che a Yalta Roosevelt aveva pro­messo a Stalin non soltanto la parte meridionale dell’isola di Sakhalin, l’arcipelago delle Curili, il porto di Dairen ma anche la base navale di Port Arthur in cambio dell’intervento con cui chiudere la guerra e garantire all’opinione pubblica una ridu­zione del massacro delle truppe americane. Stalin capì e agì da uomo ordinato e onnipotente: trasferì con la Transiberiana mezzi e materiali per l’invasione della Manciuria e quando il ministro degli esteri giapponese Togo chiese all’ambasciatore sovietico Jakob Malik di procurare un incontro fra Molotov e il principe Konoye, cugino dell’imperatore ed ex capo del governo si capì che non tirava aria.  Uno dei prezzi della bomba atomica, aggiuntivi per il Giappone era che adesso doveva tirarsi addosso anche la pedata sovietica per pagare tutti i conti in sospeso. E così fu.

Negli Usa, prima ancora del lancio della bomba, si faceva sentire il partito favorevole a una resa onorevole per il Giappone: Joseph Grew e il sottosegretario alla guerra John McCloy premettero su Truman affinché rassicurasse i giapponesi sul fatto che non intendevano privarli del sistema im­periale: «L’impiccagione dell’imperatore equivarrebbe per loro alla crocifissione di Gesù Cristo». Roosevelt a questo punto istituì un organismo militare e scientifico: l’interim Committee formato da Robert Oppenheimer, Ernest Lawrence, Arthur Compton e dal ministro della guerra Henry I. Stimson, più altri cin­que politici. Dieci in tutto. Leo Szilard era favorevole a una azione dimo­strativa anziché distruttiva sul Giappone. I prigionieri di guerra americani in Giappone, per esempio nel campo di Hokkado, furono avvertiti di di non evadere per non subire rappresaglie in seguito ai terri­bili bombardamenti con i B-29. Furono anzi organizzati “bombardamenti” sui campi con lancio di vettova­glie, abiti e medicinali per i prigionieri, con missioni di oltre 4.000 miglia per un totale di ore di volo di h.20 e 45’ sul Pacifico.

Il 17 giugno del 1945, l’italiano Enrico Fermi entrò nell’Interim Committee destinato a consigliare i politici sull’uso dell’arma atomica. La commissione delegò i suoi poteri a una sotto­commissione, lo Science Panel formata da Fermi, Oppenheimer, Lawrence e Arthur Compton. Fermi si trovò di fronte un docu­mento stilato nel suo stesso laboratorio a Chicago da James Franco e da un gruppo di ricercatori, che proponeva un uso non distruttivo della bomba: darne vi­stosa dimostrazione ai giapponesi per convincerli alla resa. L’opzione opposta era raccomandata dal generale Leslie Groves, capo del Progetto Manhattan, il quale chiese il bombardamento immediato di una città giapponese. Fermi e i suoi valutarono a fondo e poi si chiamarono fuori dalla decisione di bombardare o no: «Riconosciamo l’obbligo di fronte alla nazione, che l’arma debba essere usata per salvare vite americane. Per quanto riguarda questi aspetti generali dell’impiego dell’energia atomica, è chiaro che noi, in quanto uomini di scienza, non godiamo di alcun diritto d’au­tore… non rivendichiamo una particolare competenza nella soluzione dei problemi poli­tici, sociali militari che sorgono con la scoperta dell’energia atomica». Alla fine di giugno aggiunsero: «Non possiamo suggerire alcuna dimostrazione tecnica che abbia una qualche probabilità di far finire la guerra; non vediamo alcuna soluzione alternativa accettabile a quella del diretto uso militare».

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.