Il focus
Il carcere di Nola sarà un modello per i penitenziari del futuro
Un carcere senza muri perimetrali, con celle trasformate in una sorta dì monolocali dove vivere al massimo in due e la forma di un isolato urbano come se ne trovano tanti nelle nostre città. Così è stato pensato il nuovo carcere di Nola (se ne parla da anni ma il progetto è ancora su carta), così dovrebbero essere tutte le carceri. Ne è convinto Luca Zevi, architetto e urbanista di fama, che ha lavorato alla rivitalizzazione di centri storici italiani e al restauro di antichi edifici e, tra i vari prestigiosi incarichi ricoperti, è stato consulente del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e ha coordinato il tavolo numero uno degli Stati generali dell’esecuzione penale promossi dal Ministero della Giustizia quattro anni fa. Parte da un’idea di carcere come extrema ratio.
«Le misure alternative si rivelano di gran lunga più efficaci tanto che la recidiva è al 20% mentre per chi va in carcere è intorno al 70». E l’architettura dei luoghi in cui si sconta la pena ha una funzione fondamentale. «Il carcere – sottolinea Zevi – dovrebbe avere caratteristiche quanto più simili a un normale complesso residenziale anziché a un luogo di esclusione». Alla base c’è la visione della pena non come punizione e sofferenza ma come rieducazione e opportunità. «C’è bisogno di strutture in cui il detenuto può stare 12 ore al giorno lontano dalla cella in modo da impegnare la giornata svolgendo attività lavorative, attività sociali e sportive e avere una camera di pernottamento, di detenzione quindi, possibilmente individuale dove dormire». È un’idea di carcere che smonta quella attuale, la stravolge.
«Nel progetto elaborato dal Dap per il carcere di Nola c’era una cosa interessante, perché scompariva il muro di recinzione che è chiaramente uno strumento di esclusione del mondo interno dal mondo esterno, e la struttura diventava una sorta di isolato urbano per cui lungo il perimetro non c’erano le camere di detenzione ma ambienti dell’amministrazione, alloggi per la polizia penitenziaria, strutture lavorative e il complesso, pur con misure di sicurezza, appariva non come luogo di pena e di esclusione, non come un luogo “altro”, ma come uno degli isolati urbani di cui è composta la città». E a chi di fronte a un simile progetto strabuzza gli occhi obiettando che rendere il carcere simile a una specie di albergo rischia di azzerare l’effetto della pena, l’architetto Zevi risponde: «È un’obiezione legittima ma io do una risposta che, al di là di tutto, è soprattutto di efficienza. Il carcere che abbiamo adesso non è né afflittivo né riabilitativo, è una via di mezzo che produce il 70% di recidiva. Davvero questa società vuole continuare a sostenere il costo di strutture affollate di detenuti per farli uscire ed entrare in continuazione?».
«Siccome non vogliamo tornare al carcere afflittivo – ragiona Zevi, esperto di architettura penitenziaria – per forza dobbiamo pensare a una struttura più rispettosa dei diritti dei detenuti nella convinzione che chi non viene rispettato non rispetterà. Una struttura efficiente, capace di rieducare a una vita normale e non di estrapolare dalla vita normale come invece accade adesso tanto che il detenuto, espiata la pena, quando esce si sente completamente sperduto nel mondo reale». Eppure la tradizione penitenziaria italiana aveva avviato una stagione virtuosa. «L’Italia – ricorda Zevi – ha avuto un decennio, dal ‘65 al ‘75, in cui era all’avanguardia nell’edilizia penitenziaria internazionale. Le strutture costruite in quegli anni, da Rebibbia a Sollicciano e Spoleto, nacquero da progetti di grandi architetti italiani». Zevi ne cita uno per tutti: «Michelucci fece a Sollicciano il giardino degli incontri». Era un’architettura che anticipava i tempi. E non solo. «Nel ’75 fu fatto un regolamento penitenziario avanzatissimo e quel regolamento era una sorta di applicazione di ciò che avevamo realizzato nelle strutture nei dieci anni precedenti. In quel caso addirittura l’architettura ha trainato la legislazione verso dei criteri più efficienti e più umani». Poi il terrorismo ha stravolto tutto e la cultura giustizialista ha preso il sopravvento. Serve una nuova svolta.
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