Essere donna e detenuta è davvero dura. Non basta la lontananza dai figli e dalla famiglia, che per una donna è più sentita, ma a volte sono anche le condizioni a rendere tutto peggiore. Ma di carceri femminili si parla poco anche se i problemi non sono da poco. Carmela (nome di fantasia) ha scontato 20 anni in carcere, ora è libera ma nella sua testa rimbombano ancora le grida di quell’inferno che è il carcere femminile.

“Dopo il carcere è dura tornare a vivere, ad affrontare la tua famiglia e riprendere una vita normale – racconta Carmela – Certe cose non le puoi mai scordare. Negli occhi hai sempre la violenza che hai visto in carcere, le donne trovate impiccate e quelle che in doccia si tagliavano le vene o si avvelenavano. È molto dura dimenticare. E la mente va a quelle donne, detenute o operatrici del carcere che sono rimaste in quell’inferno”.

Proprio perché ha vissuto quell’incubo Carmela, da donna libera, vuole raccontare e tirare fuori tutte le inefficienze di un sistema carcerario che rende peggiori, che abbrutisce e incattivisce e non rispetta la persona, la donna. Vuole rimanere anonima perché la vita dopo il carcere non è semplice, ma sente in cuor suo di dover parlare: “Lo devo a tutte quelle donne che in carcere mi hanno aiutata, perché se ce la fai è solo per la solidarietà femminile”.

E si scaglia contro le inefficienze e le storture del carcere, in particolare quello di Vigevano. “Stavamo in celle di 3 metri per tre in due persone – racconta – ti capitava di dover condividere quel poco spazio con persone anche violente. Stavamo a celle aperte e le guardie non entravano nelle celle per sedare le risse. ‘Entriamo solo quando vediamo il sangue e se si ammazzano’, dicevano. Qualcuna di noi ha anche tentato il suicidio e siamo state noi a salvarle. Noi abbiamo pagato per i reati commessi ma di tutto ciò la cicatrice resta”.

Per Carmela le detenute sono “persone dimenticate nelle celle”. Lo sono anche le ammalate che non ricevono le giuste cure, “nemmeno una pillola per il mal di testa ti danno”. E racconta di una donna affiliata all’Isis che fu portata in ospedale per un mal di pancia. “Non l’abbiamo più vista, venimmo a sapere dai TG che era morta. A noi dissero che l’avevano trasferita. Aveva solo 40 anni. Si può morire così?”.
Poi c’è la storia di un’altra detenuta malata di tumore, operata e rispedita in carcere dopo 12 ore. “È assurdo che quella donna sia rimasta così poco sotto osservazione – continua il racconto – Ma purtroppo in carcere non c’è abbastanza personale per garantire un piantone in ospedale e i ricoveri rischiano di essere un problema”. Poi il cibo, che secondo Carmela è poco o nulla: “Le nuove arrivate o chi non riceve visite dai parenti rischiano di morire di fame – racconta – Non ti danno nemmeno vestiti o intimo. Spesso eravamo noi detenute a mettere insieme cose utili da dare a chi non ne aveva, ce le toglievamo noi per non lasciare in difficoltà nessuna”.

Ancora più angosciante la situazione del lavoro in carcere: “mansioni che dovrebbero essere pagate ma che se ti arrivano i soldi sono 20 o 30 euro al mese per lavorare 3 o 4 ore al giorno che spesso diventano molte di più e di volontariato. A questi bisogna togliere le trattenute e con il poco che rimane non si riesce manco a fare la spesa per comprare qualcosa da mangiare. E in tutto questo i garanti dei detenuti venivano lasciati alla porta –  continua Carmela – Poi di psicologi ed educatori non se ne vede l’ombra. All’inizio c’erano delle guardie di una grande umanità, poi sono andate via e le ragazze che ci sono hanno iniziato a trattarci senza alcun rispetto”.

“Dopo l’esperienza del carcere posso dirti che se una persona ama i familiari può tornare a casa e riprendersi in mano la sua vita – conclude Carmela – Ma chi non è abbastanza forte e non ha una bella famiglia accanto uscendo dal carcere trova solo buio”.

“Essere donna e detenuta è molto peggio che essere uomini in carcere – spiega Pietro Ioia, garante dei detenuti del Comune di Napoli – Nei penitenziari femminili il sentimento per i figli, per i mariti, è molto più sentito rispetto agli uomini. C’è poca attenzione per i carceri femminili che invece dovrebbero avere più attenzione degli uomini. Io sono garante a Napoli dove non c’è carcere femminile e non posso accedere a quello di Pozzuoli. Ho già parlato tante volte con il sindaco di Pozzuoli per avere l’autorizzazioen ad assistere anche le detenute a Pozzuoli. Soffro a non poter andare lì, soprattutto le donne hanno bisogno di supporto”.

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Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.