Per Giovanni Fiandaca, professore emerito di diritto penale presso l’Università di Palermo e garante dei diritti dei detenuti della Regione Sicilia, «prima ancora che una rinascita morale, sarebbe necessario un ri-orientamento culturale complessivo della magistratura» e un atto di coraggio della politica il cui «timore di fare riforme sgradite alla magistratura, paventandone reazioni ritorsive» ha bloccato l’afflato riformista.

Sul tema della prescrizione invita il nuovo Ministro della Giustizia Marta Cartabia a recuperarne «le ragioni garantiste in chiave di diritto del cittadino a non essere tenuto indeterminatamente in balia della macchina dell’accusa e indeterminatamente soggetto all’afflizione sostanziale del giudizio pubblico sulla propria persona». Sulla possibile nuova nomina ai vertici del Dap, Fiandaca ci dice: «L’attuale capo Petralia ha capacità ed equilibrio», ma perché per questi ruoli non scegliere «giudici di sorveglianza piuttosto che ex pubblici ministeri»?

Ci siamo lasciati da poco alle spalle l’inaugurazione dell’anno giudiziario: si è parlato di rivoluzione morale nella magistratura, di necessità di riacquisire credibilità. Ma secondo Lei, la magistratura è davvero pronta a fare un atto di mea culpa e a riformarsi?
In un mio recente articolo sul Foglio a commento del libro di Sallusti e Palamara ho manifestato una mia ormai risalente opinione che qui ribadisco. Prima ancora che una rinascita morale, sarebbe necessario un ri-orientamento culturale complessivo della magistratura, relativo non ultimo al modo di concepire e realizzare da un lato il controllo di legalità sul ceto politico e dall’altro di tenere relazione con il mondo politico-istituzionale. Nella magistratura italiana convivono patologicamente forme di pregiudiziale conflittualità oppositiva rispetto al potere politico e alleanze collusivo-clientelari, o comunque tendenze ad un indebito collateralismo con settori del mondo politico, sia di sinistra, di centro, di destra e più di recente con partiti populisti. Tutto questo è molto dannoso per un sistema democratico; ma penso che di questo necessario riorientamento, che per comodità definisco culturale, la magistratura non sia da sola capace, essa ha bisogno di essere aiutata e supportata dall’esterno. Occorrerebbe riaprire un dibattito pubblico diffuso, con diversi protagonisti tra cui l’avvocatura, il mondo universitario, i cosiddetti intellettuali appartenenti a differenti aree disciplinari, inclusi i cittadini sensibili al tema. Ma il nostro è il tempo dei dibattiti pubblici e dei confronti approfonditi?

Probabilmente le riforme più temute all’interno della magistratura sono il sorteggio per i membri del Csm e la separazione delle carriere. Qui il problema non è solo la magistratura che farà opposizione ma anche la politica suddita della magistratura che non si metterà contro di essa. Lei che ne pensa?
Il timore dei politici di fare riforme sgradite alla magistratura, paventandone reazioni ritorsive mediante l’apertura anche pretestuosa di indagini mirate a mettere sotto accusa o comunque a screditare esponenti dei versanti politici avvertiti contingentemente come avversi, credo sia reale. Sono d’accordo con Galli della Loggia che di recente ha scritto che sta proprio in questa preoccupazione una delle principali cause della timidezza riformistica del potere politico nel campo della giustizia. Mi augurerei che con l’avvento del governo Draghi il tasso di conflittualità anche potenziale tra politica e magistratura scemi, anche se non so se questo nuovo Governo cosiddetto di competenti avrà il tempo o anche l’intenzione di porre mano a tutti i numerosi interventi pure sul terreno della giustizia penale che sarebbero in linea teorica indispensabili.

Il professor Vittorio Manes da queste pagine ha detto: «Bisognerebbe prendere atto che l’amministrazione del giustizia è un “servizio”, una “public utility” dove i magistrati sono “civil servant” e i cittadini gli utenti; e che, specie in materia penale, un obiettivo minimo di civiltà impone di assicurare uniformità e parità di trattamento». Invece il libro di Luca Palamara fa emergere una situazione completamente diversa, dove conta più l’appartenenza ad una corrente che l’amministrazione della giustizia. Chi ne paga le conseguenze sono i cittadini e le loro tutele. Lei che ne pensa?
Concordo con Vittorio Manes. Purtroppo è incontestabile che l’appartenenza correntizia abbia a tutt’oggi costituito il principale criterio di scelta preferenziale per i magistrati da porre a capo degli uffici o comunque da promuovere nella progressione di carriera. Le correnti, come ho sperimentato anche io da ex componente del Csm, si sono sempre più trasformate in macchine di potere clientelare, con progressiva diminuzione della loro capacità di elaborazione culturale in una prospettiva di pluralismo virtuoso. Penso, non da ora, che sia necessario recuperare una maggiore omogeneità negli orientamenti di fondo all’interno del potere giudiziario, all’insegna di una cultura giurisdizionale il più possibile condivisa da ogni magistrato. Ma il problema ancora una volta è più di cultura di sfondo e di fondo che di riforme legislative. Dubito che riforme scritte sulla carta possano eliminare da sole il fenomeno della degenerazione correntizia.

Legato a questo c’è il tema delle valutazioni dei magistrati. Ormai è chiaro che le promozioni non avvengono per il merito. Il presidente dell’Unione della Camere Penali ha chiesto una riflessione seria su questo al nuovo presidente dell’Anm Santalucia.
La questione dei criteri di valutazione per la nomina dei vertici degli uffici è risalente e persistente. E assai bene è intervenuto in proposito Nello Rossi, valoroso ex magistrato e autorevole direttore della rivista Questione giustizia, proprio in un recente articolo sul Riformista. Egli ha ironicamente posto l’interrogativo: «è possibile che sono tutti geni?». Ha riconosciuto che il sistema di valutazione della professionalità evidentemente non funziona affatto. Condividerei i rimedi che lo stesso Rossi ha suggerito: responsabilizzare di più i controllori e a loro volta controllarli; moltiplicare le fonti di conoscenza cui attingere nella valutazione di professionalità; ampliare le forme di partecipazione dell’avvocatura e del mondo universitario alle procedure di valutazione dei magistrati, rendendole al tempo stesso più trasparenti.

C’è molto entusiasmo intorno alla figura della neo-ministra della Giustizia, Marta Cartabia. Tuttavia un po’ di scontento ha suscitato il suo ordine del giorno in cui ha messo tutte le forze di maggioranza d’accordo procrastinando la discussione. Lei apprezza questo suo tentativo di mediazione o la riforma Bonafede sulla prescrizione va abolita e basta?
Guardo con molto favore a Marta Cartabia, perché si tratta di una ex presidente della Consulta e di una studiosa costituzionalista che so ispirarsi a direttrici culturali di fondo, anche in materia penitenziaria, che sono direi agli antipodi rispetto alla demagogia punitivista del precedente Guardasigilli grillino. Mi augurerei che riguardo al tormentato tema della prescrizione il nuovo ministro, in coerenza con la tesi più volte affermata dalla Corte Costituzionale della natura sostanziale e non processuale della prescrizione, non si limiti a guardare a questo istituto nella ristretta ottica processuale dell’accelerazione dei tempi del processo penale, ma ne recuperi le ragioni garantiste in chiave di diritto del cittadino a non essere tenuto indeterminatamente in balia della macchina dell’accusa e indeterminatamente soggetto all’afflizione sostanziale del giudizio pubblico sulla propria persona, come ha efficacemente scritto di recente su questo giornale il mio collega e amico Massimo Donini. Da vecchio professore di diritto penale mi permetterei di consigliare a Marta Cartabia di chiamare al più presto al capezzale della prescrizione un ristretto gruppo di professori, avvocati e magistrati davvero esperti in materia per proporre interventi normativi all’altezza del problema.

Il caso Cutolo ha riaperto la discussione sul 41bis. Questa giornale ha parlato di “vendetta di Stato” essendo Cutolo morto da solo al 41bis pur essendo molto malato. Qual è il suo pensiero su questo?
Ritengo che sul 41 bis occorra un check up sotto diversi aspetti, non solo per verificare sul piano empirico-criminologico la persistente necessità di sottoporre a questo regime penitenziario speciale una quantità di soggetti che supera a tutt’oggi le 600 unità, ma anche per rivederne in termini di sempre maggiore compatibilità costituzionale la disciplina. Forse sono anche maturati i tempi per ricondurre integralmente alla competenza della magistratura l’applicazione di questo istituto.

Un atto di discontinuità del nuovo governo potrebbe essere il cambio dei vertici del Dap, che sono due figure dell’antimafia?
Non molto tempo fa l’ex presidente della Consulta Valerio Onida in un articolo sul Corriere della Sera ha sollevato l’interrogativo sulla validità delle ragioni per cui ai vertici dei comparti amministrativi del Ministero della Giustizia debbano essere sempre posti magistrati, e non dirigenti amministrativi di competenza ed esperienza specificamente maturate nei settori coinvolti. Inoltre si potrebbe anche ritenere che se vogliamo che siano proprio magistrati a dirigere il Dap almeno questi capi si scelgano tra i migliori giudici di sorveglianza piuttosto che tra gli ex pubblici ministeri. Detto questo in linea teorica o di principio, la mia personale e risalente conoscenza dell’attuale capo del Dap, dottor Petralia, mi induce a confidare – nonostante si tratti di un ex procuratore generale – che egli possegga le capacità e l’equilibrio necessari per gestire bene l’amministrazione penitenziaria. Spero anche che la nuova ministra Cartabia, di cui mi è nota la spiccata sensibilità per la dimensione costituzionale della pena, dedichi molta attenzione alla realtà penitenziaria che necessita non solo di nuovi interventi riformistici ma anche di efficaci terapie sul piano della gestione amministrativa e della diffusione di buone prassi.

Al di là di tutte le singole riforme che si possono proporre in tema di politica giudiziaria, non ritiene che ci sia un problema generale di cultura? Il nostro Paese non soffre ormai da troppo tempo di due gravi mali: giustizialismo e panpenalismo?
Sono senz’altro d’accordo. Le due gravi patologie del panpenalismo e del giustizialismo come studioso non mi stanco di diagnosticarle e denunciarle da svariati anni e tento, anche con i miei scritti specialistici, di contribuire a proporre medicine e antidoti per contrastarle o almeno arginarle.