Il 7 settembre 1968 le femministe americane cominciarono a bruciare i reggiseni, simbolo della loro oppressione e del dominio patriarcale. E al contempo i loro compagni riempivano le piazze contro la guerra del Vietnam e davano alle fiamme le cartoline dell’esercito che li richiamavano alla guerra.

Due movimenti nonviolenti che seppero essere rivoluzionari. Ragazze e ragazzi di allora misero il proprio corpo sullo scenario della politica. Le prime rivendicando il proprio diritto a una sessualità consapevole, che gettava nella “pattumiera della libertà” quelle costrizioni, reggiseni e corsetti, che erano state per secoli il simbolo dell’odio e della paura che da sempre l’uomo ha avuto nei confronti del corpo della donna. Del suo diritto al piacere, del potere che le conferisce la maternità. Gli altri, bruciando le cartoline, fecero qualcosa di più e di diverso rispetto al rifiuto delle armi e dell’imperialismo, sottraendo il proprio corpo alla divisa, alla costrizione di una guerra che non era la loro.

Le ragazze italiane del 2024, nelle giornate in cui si ricorda nel mondo intero quanto ancora il corpo delle donne sia sottoposto a molestie e stupri fino al femminicidio, non bruciano simboli della violenza subita dal proprio essere “femmine”, ma l’immagine di un ministro colpevole di aver affermato qualcosa che loro non condividono. E intanto, maschi e femmine, portano sulle spalle la kefiah, a simbolo di solidarietà al popolo palestinese, volutamente ignorando la sofferenza portata ai corpi delle donne israeliane, mutilate e stuprate e uccise dagli assassini di Hamas il 7 ottobre di un anno fa. Queste ragazze, così orgogliose e piene di puntiglio e di voglia vera di lottare per una società di donne libere dalla violenza del “patriarcato”, sono figlie e nipoti di noi femministe degli anni settanta che, anche se non li avevamo bruciati, i reggiseni li abbiamo lasciati a lungo nel cassetto. E abbiamo messo il corpo e la sessualità al centro della contraddizione uomo/donna, insieme alla libertà di decidere se avere o no un figlio. Non il diritto “all’aborto”, ma alla libertà di scelta.

Ricordiamo che fino al 1974 l’interruzione di gravidanza era illegale, che fino al 1980 in Italia non esisteva il divorzio, che fino al 1968 l’adulterio femminile era reato. E posso ricordare con orgoglio di esser stata la presidente della commissione giustizia della Camera che nel 1996 ha fatto approvare la legge che trasformava la violenza sessuale da reato contro la pubblica morale in reato contro la persona. È stata molto dura. Ricordo che l’aula quell’ultimo giorno si andava pian piano svuotando, mentre si avvicinava l’ora del pranzo, per indifferenza, più che per dissenso. Così, dopo aver consultato le colleghe di tutti i gruppi, mi ero alzata e avevo dichiarato che avremmo consegnato discorsi scritti, rinunciando all’“intervento orale”. E si era levata una voce maschile dal fondo: “Ma chi ve l’ha chiesto?”, accompagnata da sghignazzi. Umiliate, ma abbiamo vinto.

Che cosa è successo in tutti questi anni che abbiamo alle spalle, in cui l’Italia è diventata un paese civile sul piano dei diritti delle donne? Perché le ragazze sono ancora in piazza? Non certo perché non sia cambiato niente. La forza delle donne, sia per emancipazione individuale che per quella forza della sorellanza che non andrebbe mai sottovalutata, e una serie di riforme, tra cui quella citata dal ministro Valditara del 1975 che ha rivoluzionato il diritto di famiglia abolendo la figura del pater familias, hanno eroso la forza della società patriarcale. E insieme, a causa dell’inadeguatezza di tanti uomini, hanno finito con l’indebolire la stessa autorevolezza del padre, e insieme dello stesso principio di autorità dei genitori sui figli. Le donne hanno fatto passi da gigante, nello studio e nel lavoro. Ma gli uomini si sono fatti più fragili, i più insicuri di loro cercano ancora di trasformare la propria forza fisica in strumento di potere.

Al centro, ancora il corpo delle donne. Cancellato in queste ombre che vivono nelle nostre città tutte coperte dal patriarcato della sharia. Violato fino a essere eliminato con la morte. Non a caso diciamo “femminicidio”, perché parliamo della femmina. Del suo corpo, della sua sessualità, della sua capacità di procreare. Oggi ci sono le leggi e i processi e gli ergastoli. Ma il punto è sempre lì, non il “patriarcato” della società, ma l’inadeguatezza di singoli maschi rispetto alle loro compagne femmine e a quel loro corpo così desiderato e invidiato e odiato.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.