Cosa dice la nuova lettera di Papa Francesco sulla letteratura a chi la insegna? Non molte cose nuove, si suppone. Il suo tentativo è esattamente lo stesso che da quasi due decenni ci fa perdere la voce ogni giorno: comunicare il valore e il gusto di ciò che si è costretti a insegnare per dovere. Avremo certamente accumulato più argomenti di lui. Allora si fa forte la tentazione, che leggendo diventa anche sensazione, del già saputo. A fine lettura possiamo confermare: sapevamo già tutto. Eppure, anche dinnanzi al più estremo “già saputo”, due cose vincono sempre e possono – sempre e comunque – rinnovare il lettore: il “come si dice” qualcosa (solitamente si definisce forma, qui ci piace dire limpidezza), il “quanto ci si tiene” (si dice passione, ci piace dire urgenza). E deve sembrare urgente, al Papa, un affondo sull’esperienza del giudicare, se vi dedica così tanta precisione espressiva.

“La rappresentazione simbolica del bene e del male – scrive – del vero e del falso, come dimensioni che nella letteratura prendono corpo di esistenze individuali e di vicende storiche collettive, non neutralizza il giudizio morale ma impedisce ad esso di diventare cieco o superficialmente condannatorio”. La letteratura ci aiuta a non diventare ciechi nel condannare l’errore altrui. Boom! Come accade questo? Aprendosi alla visione della ricchezza e della miseria umana, che la letteratura sbatte in faccia continuamente.

“Nell’aprire al lettore un’ampia visione della ricchezza e della miseria dell’esperienza umana – prosegue la lettera– la letteratura educa lo sguardo alla lentezza della comprensione, all’umiltà della non semplificazione, alla mansuetudine del non pretendere di controllare il reale e la condizione umana attraverso il giudizio. Vi è certo bisogno del giudizio, ma non si deve mai dimenticare la sua portata limitata: mai, infatti, il giudizio deve tradursi in sentenza di morte, in cancellazione, in soppressione dell’umanità a vantaggio di un’arida totalizzazione della legge”.

Umiltà del non semplificare, errore nella pretesa di controllare il reale attraverso il giudizio, portata limitata del giudizio stesso, arida totalizzazione della legge. Quanto è forte la consonanza con le parole e le visioni di questo effervescente, garantista e open minded giornale riformista? Il pensiero, di converso, va a certi articoli-sentenza di Selvaggia Lucarelli, alle semplificazioni insidiose sul caso sportivo di Imane Khelif, alle quotidiane gogne politiche e mediatiche. E c’è anche una questione educativa. I media che seguono i giovani – molti di loro si informano solo su Instagram – funzionano proprio così: semplificazione, nettezza, inconsistente velocità; tutti pieni di “cose spiegate bene” in due minuti, di “verità che non vi hanno mai detto” in trenta secondi. Attenzione, il dramma educativo non è la brevità in sé, ma la nettezza senza immedesimazione, la valutazione senza vero interesse, il giudizio senza pietà.

Non ha ancora finito il Papa, perché vuole fornire le ragioni della diversa posizione che la letteratura può educare. “Lo sguardo della letteratura forma il lettore al decentramento, al senso del limite, alla rinuncia al dominio, cognitivo e critico, sull’esperienza, insegnandogli una povertà che è fonte di straordinaria ricchezza. Nel riconoscere l’inutilità e forse pure l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo e dell’essere umano ad una antinomica polarità di vero/falso o giusto/ingiusto, il lettore accoglie il dovere del giudizio non come strumento di dominio ma come spinta verso un ascolto incessante e come disponibilità a mettersi in gioco”.

Abbiamo detto della consonanza con le parole del riformismo. Diciamo pure che talvolta garantismo e riformismo appaiono senza cuore, autocompiaciuti snobismi; qui riappaiono fondati su una profonda evidenza: l’impossibilità di ridurre il mistero del mondo, il dovere del decentramento, la coscienza del nostro limite, la nostra insopprimibile povertà. Si è riformisti, garantisti, liberali, non ideologici, non violenti, non fascisti, non totalitari, quanto più questo senso del limite diventa cosciente. Che cos’è il garantismo, se non questo rispettoso fermarsi prima di “sentenziare”? Cos’è il riformismo, se non questa disponibilità al cambiamento di chi – nelle idee e nell’azione – sente l’attraente freschezza ma al contempo il limite strutturale? Viva il riformismo della mente e del giudizio, viva la letteratura. E viva il Papa.