Penso e dico l’impossibile? Parlo anche a Piero Sansonetti che ha compiuto la scelta di fare un quotidiano di battaglia garantista su due piani difficilmente accostabili e conciliabili: garantire una onesta applicazione delle leggi esistenti e garantire la qualità della vita dei carcerati, la loro salute, gli affetti della loro carne qui e ora. Il carcerato in quanto concreto referente di ogni altra concreta forma di reclusione della persona. Del suo corpo. Scelta per me assai ardita in quanto questi due campi di intervento mi sembrano essere in contraddizione o meglio in urto tra loro. E avere in sé, ciascuno per il proprio verso, qualcosa di distopico.

C’è o no un circolo vizioso o addirittura un vuoto incolmabile nella convinzione e speranza che l’orizzonte di valori in cui, da esseri umani, continuiamo ad abitare possa davvero garantire i risultati che si pretendono dal garantismo? Oppure, nella sua sostanza, lo stesso garantismo ha al suo fondo proprio la uguale barbarie delle guerre e dei delitti compiuti per buona o cattiva causa o inevitabile necessità di sopravvivenza? In tanto affascinante straparlare del progressivo esodo d’ogni cosa vivente dalle strette vie della scrittura, si dimentica o rimuove troppo spesso il fatto che leggi e carceri dipendono da protocolli alfabetici stampati sulla carta come un tempo lo furono sulla pietra. Lo stesso perverso intreccio tra protezione e insieme negazione della vita che il Covid 19 rivela essere ora in azione. Sempre ancora di nuovo dentro i pretesi regimi di felicità delle società civili.

In questa ottica coscienziale è in discussione l’efficienza di giusti principi, giuste investigazioni e giusti processi nel campo della “sorveglianza”, ma – come negarlo? – lo sono parimenti le giuste “punizioni”: basta una sfumatura per entrare nella letteratura anti-concentrazionaria da Foucault ad Agamben (ma anche in quella sorta di bizzarro “uomo qualunque” che oggi sbraita contro l’impostura che sarebbe dietro ai provvedimenti emanati dalle autorità in nome di una emergenza di fatto inesistente). Dunque come si può riuscire a combinare equamente il rapporto tra delitti e pene appena ci si lasci sfiorare dall’idea che la civiltà dei regimi di penitenza usa la medesima violenza dei suoi trasgressori? Vecchia storia mi direte. Irrisolvibile (tantomeno quando a proporla è uno come me: digiuno o quasi delle complesse letture che di tale dilemma costituiscono una lunga e solida tradizione). Eppure…

Sono un convinto garantista, lo ho detto, ma sono altrettanto certo che dare alla persona la piena garanzia di non subire violenza potrebbe accadere solo per mezzo di una permutazione radicale dei valori che la governano – ovvero la assoggettano ad altro da sé – all’interno e dall’interno della propria stessa coscienza o forse sarebbe meglio dire della propria sensibilità.. Se è così, allora è la persona a dovere trascinarsi altrove dalla condizione di subalternità e dunque sofferenza in cui è costretta e si costringe per educazione ricevuta, per necessità e per sua stessa natura, istinto. Operazione che essa può realizzare soltanto facendo esperienza della propria doppia identità di persona in sé, organismo vivente, e di persona assoggettata, cioè soggetto sociale (non ditemi che vi è sconosciuta questa schizofrenica esperienza quotidiana!). L’unico campo possibile per tale sostanziale trapasso da soggetto a persona può quindi essere la formazione. Per quanto le sue istituzioni, i suoi apparati, le sue discipline siano in tutt’altra direzione orientate, essa è tuttavia il luogo e il tempo in cui una cultura potrebbe forse modificarsi ed essere modificata.

Ecco perché ritengo che il nodo culturale e sociale della scuola, e più vastamente della formazione ad ogni grado e livello, debba essere affrontato non lateralmente ma dritto al centro della battaglia garantista che costituisce il merito e la fatica di Il Riformista. Voglio dire che, a dover trovare il fulcro politico, la giusta causa, di tale battaglia, non basterà mai – come infatti non è mai bastato – l’umanesimo di nessuna ideologia, religione e partito. Nessuna democrazia o nessun liberalismo. Nonché tecnologia. Per sperare in qualche effettivo risultato, ci vuole un salto netto da praticare ben oltre la siepe della civilizzazione antica e moderna. Ci vuole un contenuto che, paradossalmente, è stato sempre vivo e sensibile nella nostra carne di esseri umani (la verità del dolore che percepisco nel ferire me stesso o altri). Un contenuto, quindi, presente alla nostra naturale condizione di sofferenza psicofisica in quanto singole persone.

Ma che ci è sottratto – abbiamo lasciato ci fosse carpito di pari passo con la civilizzazione – ad opera delle stesse forme culturali e politiche di socializzazione di per sé comunque necessarie alla sopravvivenza umana nel mondo. Per opera loro il contenuto reale della persona (carne viva sotto la nostra pelle) è schermato – forse sempre più ma certamente come prima – dai linguaggi identitari impartiti e appresi nelle istruzioni imposte e subite in ogni agenzia di socializzazione (dalla famiglia alla scuola), prima ancora di entrare, una volta istruiti, nella dimensione del lavoro e dunque dei modi di produzione e riproduzione della società, delle sue necessità. Così da diventare il contenuto maggiormente rimosso nelle nostre stesse capacità di pensiero, di conoscenza e persino desiderio.

Ecco perché penso che, contrariamente ai modi in cui la si travisa, strumentalizza e umilia, la questione della educazione e istruzione dei giovani non venga dopo ma prima di effettivi “buon governi” – amministrazione di giuste leggi rese efficaci da giusti professionisti – in quanto tale domanda e la capacità di darle una risposta costituiscono la sola possibilità di operare alla mutazione di ogni valore culturale, istituzionale e politico della nostra civiltà e della sua storia. In nuce le strategie e tattiche del garantismo già hanno – ma assai più radicalmente dovrebbero avere – la pura e semplice cura della singola persona al di là di ogni altro valore. Dovrebbero considerare la sua sofferenza un tabù senza alcun alibi possibile. O quanto meno dovrebbero avere tragica consapevolezza di ciò che divide l’eccezione dalla regola.

(Fine prima parte)