Incontriamo il generale Vincenzo Camporini, già Capo di Stato Maggiore della Difesa e presidente del Centro Alti Studi della Difesa, all’indomani della manifestazione che lo ha visto in piazza, a Roma, con tremila manifestanti europeisti a sostegno dell’Ucraina.

Un momento molto particolare, nelle relazioni Usa-Europa ne ricorda come questo?
«Mai. Perché non è mai stata in discussione la solidarietà transatlantica. Anche nei momenti più drammatici, come quando nel 2003 gli Usa decisero di invadere l’Iraq, ci fu una spaccatura ma fu una frattura sulle iniziative da prendere, non sullo spirito. Oggi invece siamo davanti alla evidente incompatibilità tra la visione politica dell’attuale amministrazione americana e quella dei paesi europei. Ferme restando le sfumature diverse tra gli Stati».

Qui la frattura è politica, mi sta dicendo.
«Politica e ideologica. Temo molto difficile da ricomporre, perché la visione di Trump e della sua amministrazione è quella di un mondo governato dalla forza, e non dalle regole. Cosa che con tutte le riserve, i cedimenti, le indecisioni del passato, non era mai stata messa in discussione: ci sono delle regole. Oggi Trump dice: io sono il più forte e quindi bisogna fare come dico io».

Interessante che questa considerazione venga da un generale. La politique d’abord, la forza seguirà?
«La forza degli eserciti deve essere sempre impiegata seguendo le regole, a partire da quelle del diritto internazionale e con il pieno rispetto delle competenze delle istituzioni. Altrimenti si torna indietro di secoli. Lo spirito che mi ha sempre guidato e che guida le forze armate è questo».

Oggi ci sarebbe bisogno di una visione politica unica, per l’Europa.
«L’Europa ha una visione politica ma è ancora troppo frammentata. Quello che è accaduto a Londra va nella giusta direzione, e riprende la prima riunione di Parigi. Da analista: quello che serve oggi è la convergenza tra alcuni Stati membri dell’Unione e di alcuni Stati del Patto atlantico. Una coalition of the willing che condivida una visione. Dunque sì all’Europa a più velocità e sì alla piena cooperazione militare, su questo, con il Canada e con la Turchia».

Nasce una Euronato?
«Io lo auspico molto. Immagino una situazione in un futuro non troppo lontano in cui ci sia una componente europea dell’Alleanza Atlantica che abbia dimensioni e capacità sufficienti per poter essere un partner di pari peso di Washington. In questo modo le decisioni verrebbero concordate alla pari e non assunte alla Casa Bianca e ingoiate a prescindere dall’Europa».

Da chi verrebbe composta l’Euronato?
«Dai paesi fondatori dell’Ue, con la Gran Bretagna al centro dell’iniziativa. Il Canada è una propaggine naturale, mentre con la Turchia va stabilita una partnership strategica. Perché Erdogan ha una visione peculiare, una sua agenda che sembra quasi puntare a ripristinare il ruolo del vecchio Impero Ottomano nella regione».

Macron ha messo l’arsenale nucleare francese a disposizione.
«E questo diventa un elemento molto importante perché conferirebbe a questa entità un suo deterrente. Se c’è la volontà politica, si può fare tutto. Il numero delle bombe nucleari attive è irrilevante: ne basterebbero venti».

L’esercito europeo invece è al di là da venire…
«Non è importante che ci sia un esercito con le stesse uniformi e le stesse armi. La Nato non ha mai avuto un suo esercito. Seguiamo quel modello, creiamo una struttura di comando e controllo che utilizzi le forze dei singoli paesi, secondo le priorità e le esigenze. C’è la procedura che si chiama “transfer of authority” per cui ogni paese decide di trasferire il comando sulle proprie unità combattenti al Comando. Questo modello può essere ripreso subito, con una soluzione interinale che conferisca di volta in volta il comando a quello di una nazione. Se si fa questo, mettere insieme l’operazione richiede settimane. Non anni».

Prevede che una Euronato possa diventare operativa entro l’Estate?
«Se lo si vuole, certamente. Tutte le esigenze di pianificazione e di gestione possono essere mobilitate entro breve: abbiamo in tutti i paesi coinvolti reparti abituati da decenni a collaborare con gli alleati».

E noi? L’Italia di Giorgia Meloni?
«Vedo che su questo terreno l’Italia si fa trascinare con molta fatica. Non so se le riuscirà questo ruolo da pontiera con Trump che si è attribuita. Non so neanche come Meloni possa tenere insieme le diverse visioni della sua maggioranza su questa crisi: le posizioni di Salvini e di Tajani sono molto diverse. Avrà davanti uno sforzo titanico».

Avatar photo

Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.