Matteo Nucci torna in libreria con Il grido di Pan (Einaudi). L’incipit trascina il lettore dentro questo viaggio oltre i confini del tempo che siamo chiamati a compiere: “Al principio è la meraviglia”. Si parte da un sentimento di stupore. Quel senso d’incredulità che è incline a tramutarsi in paura o in inquietudine. Dove cercare le risposte agli infiniti interrogativi che ci assillano fin dal passato? Come sincerarsi che le risposte siano valide, e in che modo liberarsi dalla vertigine che quest’impressione di non sapienza, davanti a ciò che resta misterioso, porta con sé? Sono domande sbagliate. Il punto della riflessione di Nucci, approfondita e colta, godibile nelle incursioni che si concedono all’ironia e così potente nella relazione fra il pensiero antico e alcuni scrittori recenti come Durrenmatt, Kavafis, Hemingway o Garcìa Lorca, è un altro. Tutto, dagli albori del mondo, suscita meraviglia. Platone, nel Teeteto, mette in bocca a Socrate parole chiare: “Non esiste altra origine della filosofia se non questa”. Una definizione solo in apparenza priva d’ambiguità. La meraviglia riguarda il mondo esterno, ciò che si dispiega incomprensibile davanti ai nostri occhi. E quello interno. Noi stessi. Conoscere i meccanismi attraverso cui funzioniamo, riconoscere la propria natura, il rapporto con il sé e con il mondo.

Non c’è da attendere Freud per maturare il sospetto che l’uomo non sia padrone neanche a casa sua, anche se poi Freud getterà sull’argomento un sorprendente fascio di luce. È un privilegio e una condanna: fra gli esseri viventi, solo agli umani è concesso il lusso di indagare il fuori e il dentro, l’inizio e la fine, la vita e la morte. Già, la morte. In mezzo a tutte le specie di animali mortali, eccoci solitari a formulare pensieri sulla nostra inderogabile mortalità. Ciò che ci distingue dal resto dei viventi è, appunto, il logos – commistione di parola e di pensiero, così come la definirono i Greci. Ciò che ci immerge in un tremito d’angoscia è, appunto, il logos. E quanto consolatorio sarebbe poter dismettere per un secondo il pensiero. Immaginiamo una coscienza che funzioni come un interruttore, il minimo gesto delle dita e off: spenta la capacità di osservare o di formulare un’idea, azzerate le paure, nostalgia, rimpianti e ossessioni, tutti messi in pausa. Poi di nuovo: on. Tornare a ragionare senza che la ragione si trasformi in una cella da cui è impossibile venir via.

Scrive Nucci: “Nel labirinto del nostro logos, noi sentiamo di volerci liberare del logos per vivere la vita priva di labirinti che è propria di tutti gli animali mortali”. È una tensione delle origini. Ed è dal pensiero antico che Nucci parte per ricordarci le sfide da dover accogliere se non vogliamo scordarci la nostra vera natura. Le parole che più si susseguono sono di simile segno. Non chiarezza o sinonimi, ma: enigma, sfida, vertigine, balbuzie, oscurità, abisso. Seguire il filo di Arianna è un salto nel buio. Figlia di Minosse e sorella del Minotauro, quando vede Teseo sbarcare a Tebe, Arianna, presa dall’amore, decide di aiutare il giovane nella sua impresa: uscire dal labirinto. Teseo riesce grazie all’aiuto di lei, astuzia di donna, anche se in verità il trucco le era stato donato da un uomo: Dedalo, l’inventore del labirinto. E tuttavia, c’è un altro dono che Dedalo fa alla principessa: non un luogo creato, come il labirinto, a somiglianza dell’oscurità della propria mente, non il pensiero o la parola. Ma la danza. Arianna viene abbandonata da Teseo – quel farabutto – sull’isola di Naxos, dove a consolarla c’è Dioniso, dio dell’ebrezza.

È ora che la principessa si scioglie nel volteggiare dei suoi liberi passi, libera finalmente da sé. Al lettore, Nucci rivolge lo stesso imperdibile invito. Perdersi. “Facciamo fuori ogni scienza grossolana, allora, e abbandoniamoci al mito. E perdiamoci nel mito, ossia nella parola, proprio come capitò ad Arianna, persa nell’isola sconosciuta e quindi premiata dalla perdita di sé che Dioniso le concesse”.