Ci vorrà un vero sortilegio per liberare una certa sinistra politica e sindacale dall’abitudine di osservare i problemi del mondo del lavoro senza approfondire le loro cause. Da decenni si persevera con il metodo dello struzzo: si evita di affrontare la nuova realtà del lavoro, trascurando l’urgenza di adattarsi a un mercato sempre più competitivo. Il lavoro prospera quando ci sono commesse, e per attrarne servono prodotti di qualità a costi concorrenziali. Questo richiede un contesto di sviluppo basato sulla collaborazione tra imprese e lavoratori, sulla flessibilità adeguatamente retribuita, su salari ancorati alla produttività e su un nuovo modello di welfare, sia pubblico che contrattuale, capace di rispondere alle sfide moderne.

La catena di montaggio appartiene ormai al passato di cinquant’anni fa; il digitale ha trasformato radicalmente il lavoro e la quotidianità, a cui oggi si aggiunge l’Intelligenza Artificiale. Eppure, la narrazione politica e le strategie contrattuali restano agganciate a schemi obsoleti. Già 25 anni fa, i riformisti Marco Biagi e Massimo D’Antona tentarono di modernizzare il sistema, ma furono osteggiati da chi voleva preservare modelli superati. Oggi siamo di fronte a una continuità culturale che fatica ad evolversi: dal referendum contro il Jobs Act al dibattito sul salario minimo per legge, dalla diffidenza verso modelli retributivi basati sulla produttività fino allo scetticismo riguardo l’applicazione dell’articolo 46 della Costituzione, che prevede la partecipazione dei lavoratori nella gestione aziendale. Dopo 77 anni, tale principio ha finalmente trovato applicazione attraverso una legge condivisa tra maggioranza e opposizione riformista, ma il cambiamento deve essere più radicale.

Si discute molto di lavoro, salari e sviluppo, ma sono necessari uno sguardo nuovo e obiettivi più ambiziosi. La priorità è ripensare il rapporto tra formazione e produzione per evitare il paradosso di una disoccupazione diffusa mentre mezzo milione di posti resta vacante per carenza di competenze adeguate. È inoltre fondamentale incrementare la produttività aziendale mediante meccanismi salariali premiali e una redistribuzione più equa della redditività. In tale contesto, la riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario può rappresentare una soluzione contrattuale. Tuttavia, più che basare le retribuzioni sul tempo lavorato, bisognerebbe ancorarle ai carichi di lavoro reali. Purtroppo, questa logica è stata trascurata persino nello smart working: nonostante sia evidente che si lavora con maggiore efficienza e meno sprechi di tempo e denaro, le retribuzioni restano legate alle ore lavorate, anziché ai risultati. È una visione antiquata che penalizza i lavoratori nei salari e blocca l’evoluzione del mercato del lavoro.

Viviamo in un’epoca di trasformazioni profonde, che richiedono un cambio di paradigma. Se vogliamo garantire il benessere, dobbiamo abbandonare gli schemi del passato e adeguarci al presente. Il costo dell’immobilismo potrebbe essere altissimo: il mondo del lavoro è disorientato, intriso di slogan e dominato da leader populisti che evidenziano problemi senza offrire soluzioni. Ma il tempo stringe. Il futuro non aspetta, e ogni ritardo o incertezza rischia di avere un prezzo elevato. È il momento di affrontare il cambiamento con determinazione, per offrire al paese una prospettiva di sviluppo civile ed economico che lo proietti verso il domani, anziché condannarlo alla stagnazione.

Raffaele Bonanni

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