«È la dimostrazione del cambiamento dell’agenda degli Stati Uniti». Non si dimostra per nulla sorpreso Mikhail Minakov, politologo, filosofo alla Kyiv-Mohyla Academy e Senior advisor del Kennan Institute, di fronte alle ultime definizioni provocatorie di Trump verso Zelensky. «Gli Stati Uniti hanno deciso di interrompere il loro supporto al sistema liberal-democratico. Né più né meno».

Professore, dopo quelle frasi cambia tutto? I negoziati, i rapporti Washington-Kyiv…
«Dobbiamo ragionare sul contesto. Il conflitto ucraino è multidimensionale. La prima dimensione è quella interna: l’opinione pubblica. L’Ucraina è in guerra dal 2014. È tanto tempo. Questo rende il Paese debole e lo espone agli interessi russi, all’annessione della Crimea e all’espandersi dei separatismi. Poi ci sono le relazioni Russia-Occidente, che non sono mai state così critiche dai tempi di Monaco 2007 (durante la cui conferenza Putin attaccò la Nato e il multilateralismo degli Usa, denunciandolo come una minaccia alla sicurezza globale, ndr). D’altra parte, risale proprio a quell’anno l’inizio di una nuova politica Ue verso l’Europa dell’Est, fondata su l’avvio del soft power della Nato. Un antagonismo proseguito fino a oggi».

E non c’è mai stato un momento di recupero delle relazioni?
«No. Anzi, dopo il 2014, i rapporti sono andati peggiorando. E hanno raggiunto il picco nel 2022 con lo scoppio delle ostilità».

C’è un’altra dimensione ancora?
«Riguarda i rapporti tra Occidente e Ucraina, che, nonostante il dialogo, la partnership e gli aiuti, non hanno mai raggiunto il grado di alleanza vera e propria. Quello che sa succedendo si sta ripercuotendo sull’intero schema».

Quindi Trump si è semplicemente limitato a smascherare una situazione già complessa.
«Lo scontro politico coinvolge i gruppi interni a Kyiv e il loro dialogo da una parte con l’Ue, dall’altra con gli Usa».

Quali gruppi?
«I movimenti post-Maidan e gli oligarchi. Le correnti filo-occidentali e ciò che resta di quelle alleate di Putin. Poche, a dire il vero, perché tra il 2014 e il 2022 sono gradualmente fuggite. I gruppi filo-occidentali hanno stretto legami significativi con la Washington democratica».

Un legame che però ora si è compromesso.
«Con le presidenziali, lo scorso anno, si è notato l’emergere in Usa della prevaricazione dell’interesse nazionale rispetto alle questioni internazionali aperte. È cambiata l’agenda, appunto. Le opzioni per gli Usa, prima ancora del voto, erano se confermarsi potere egemonico globale, oppure rispondere alle proprie esigenze interne?».

Sappiamo anche quale linea abbia prevalso. Ma le conseguenze?
«Le conseguenze si riassumono in un progressivo allontanamento tra gli interessi di Washington e quelli ucraini. Ma anche europei».

Questo vuol dire per Kyiv perdere ogni fiducia?
«Dopo tre anni di guerra, il governo ucraino si è talmente concentrato sul conflitto che ne ha assunte le identità. In termini di lotta, propaganda, ma ancora modalità diplomatiche e recupero di risorse, Zelensky e i suoi sono diventati dei bravi “manager of war”. È un handicap che non permette a nessun di loro di poter negoziare con astuzia e forza al tempo stesso. Né con Mosca né con Washington».

D’altra parte quali alternative ci sono?
«Nessuna. Però ricordiamoci che, fin qui, Zelensky si è confrontato con un’Amministrazione Biden, ricorrendo a toni anche muscolare, quasi aggressivi. Ora è diverso».

Trump è fatto di un’altra pasta?
«Per quanto diversi si assomigliano. Entrambi populisti. Entrambi portati alla recitazione».

Questo potrebbe essere un punto di incontro?
«È presto per dirlo. Finora hanno prevalso le rivalità. È certo che tra i due si apre lo spazio per l’Europa per fare da mediatrice. Questo è il momento per l’Europa per mostrare i suoi muscoli e la sua lungimiranza diplomatica».

Cambiamo argomento, professore. Le famose terre rare in Ucraina possono essere una merce di scambio per la pace?
«Questa storia è una vergogna! È Washington presenta il conto da Kyiv. Un gesto che nel Paese non è stato accolto bene. Era dal 2014 che non si tenevano manifestazioni di protesta davanti all’ambasciata Usa a Kyiv. Oggi quell’idillio si è interrotto. È la veloce degenerazione del cambiamento voluto dagli Usa che prende la china di un vero e proprio sopruso colonialista».

Quindi Zelensky farebbe bene a non fidarsi?
«C’è un problema costituzionale che non si coglie. La nostra costituzione è stata scritta sulla base di un retaggio sovietico. Le risorse naturali dell’Ucraina appartengono al popolo ucraino e non al governo. Se quest’ultimo dovesse decidere di svincolarle per farle sfruttare da una potenza straniera, dovrebbe prima passare dalla volontà popolare, tramite referendum. Poi, forse, le terre rare diventerebbero merce di scambio. Non è un’impresa facile».