Si può anche sostenere che il processo a Salvini abbia solide fondamenta giuridiche – ne ha scritto ieri il nostro amico Claudio Cerasa – ma non se ne può tacere la genesi tutta “politica”. Come ha ricordato, sempre ieri, Giovanni Orsina, il percorso giudiziario fu avallato dal più sacro dei luoghi della politica, il Parlamento, il 30 luglio 2020, quando l’allora maggioranza giallorossa – con 149 voti contro 141 – ribaltò un parere della Giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato e mise sotto l’allora opposizione di centrodestra. Il tutto avvenne ad opera di uno smemorato Giuseppe Conte, che nel suo primo governo aveva adottato una linea durissima su Open Arms, oltre che grazie ad un improvviso cambio di linea di Italia Viva, che fino ad un attimo prima del voto pareva intenzionata a negare l’autorizzazione, ma spedì Salvini a processo dopo un vibrante intervento in Aula del suo leader.

Discutibile o no che fosse la decisione, si trattò di un atto politico in purezza, e come tale fu sottolineato dalle reazioni inviperite di Forza Italia e Fratelli d’Italia, oltre che dal consueto giubilo del centrosinistra. Insomma, senza quel voto non ci sarebbe stato nessun processo. La sequenza secca degli eventi legati al caso Open Arms ha dimostrato inequivocabilmente – una volta di più – quanto sia inscindibile in Italia l’intreccio tra vicende giudiziarie e politica. Ormai inestricabile, a meno che non si decida di mettere mano al rapporto tra i poteri cardine dello Stato di diritto partendo dalle fondamenta. Per esempio, come propone qui a fianco Giuseppe Benedetto, attraverso il ripristino dell’articolo 68 della cosiddetta (non da noi) “Costituzione più bella del mondo”.