Se Magritte recitava “ceci n’est pas une pipe”, questa, a buona ragione, non è la recensione di un film. Il film di cui tuttavia qui si parla è Joker. Un film letteralmente straordinario. Abbiamo imparato, lontano nel tempo, da un maestro come Edoardo Bruno e dalla sua “Filmcritica”, che l’opera cinematografica non si può giudicare contenutisticamente. Si è poi irriso allo “specifico filmico”, secondo la definizione di Pudovkin, ma resta viva la lezione sul fondamento estetico della critica all’opera d’arte.
Joker ha sollevato entusiasmo e collera. Testimonianza della sua forza e della radicalità del suo messaggio. Milito tra gli entusiasti, ma il valore del film è sancito dal Leone d’oro 2019 al Festival di Venezia e dal vasto e intenso consenso di critica. Il regista Todd Phillips e l’attore protagonista Joaquin Phoenix vengono giustamente accreditati di una prestazione eccellente. Joaquin Phoenix è semplicemente superbo, con una interpretazione che verrà ricordata a lungo come superlativa nella storia del cinema.
Ma non è di questo che qui si vuol parlare, quanto della tesi che si intravede nella trama e nell’ordito di Joker. Non è che la tesi faccia bello il film, sono la forza del film, la sua carica estetica che propongono la tesi con una incisività particolare tale da costringere a discuterla, quale che sia il grado di adesione o di dissenso rispetto a essa. Arthur Fleck, il protagonista, è un attore comico ai margini del mondo dello spettacolo che sembra attirarsi ogni tipo di violenza spesso gratuita e immotivata. Gotham city è il luogo dove avvengono i fatti, il bordo di una città, il margine del mondo in cui viviamo oggi, il mondo contemporaneo. La tesi è lucida ed estrema. Essa riassume la realtà, le relazioni sociali, i rapporti tra gli esseri umani in un cerchio chiuso, in un rapporto causale così stringente da non ammettere terze vie, se vogliamo vie d’uscita.
Ogni tentativo di forzare il cerchio resta vano, è condannato al fallimento, il cerchio si richiude. Il sistema è la causazione reale di una violenza diffusa, pervasiva, appunto sistemica. Ne sono le vittime privilegiate le persone più esposte e a rischio economico, sociale e civile, generato da questa società della diseguaglianza, dell’ingiustizia e della marginalizzazione. Ogni fragilità umana, che potrebbe altrimenti costituire una ricchezza della persona, diventa, senza scampo, il bersaglio di una forza di morte, di un sistema di relazioni sociali disumanizzante e implacabile. In esso c’è una sola reazione possibile, quella euguale e contraria di far propria la violenza e di agirla contro il sistema in tutte le sue personalizzazioni e manifestazioni, contro ciò che chi ti aveva colpito.
L’accensione di un fuoco produce l’incendio. Quando Fleck, la vittima, prende la pistola, spara e compie la vendetta, una folla insorge con lui e porta, come in una esplosione, la violenza nella strada. Il cerchio si chiude, inesorabilmente. Sembra riecheggiare la formula di Jean Paul Sartre, nella prefazione ai Dannati della terra di Frantz Fanon: «Guariremo? Sì. La violenza, come la lancia di Achille, può cicatrizzare le violenze che ha prodotto». Fleck nel lungo cammino di vittima è scosso da improvvise crisi di riso compulsivo, il segnale dell’incendio. La violenza del sistema è così totalizzante da non consentire che la reazione violenta. La violenza del sistema prende sempre le forme specifiche di una persona, della sua malvagità, così esso si fa schermo della cattiveria del singolo per occultare quel che gli è proprio. Nella violenza della reazione non c’è invece propriamente una scelta della medesima, quanto piuttosto l’atto. Fleck non diventa il cattivo, solo diviene la protesi della pistola che impugna e che spara. È a lei che canta la folla protagonista quest’ultima di una indifferenziata violenza, indifferenziata quanto lo è la folla stessa.
Il cerchio si chiude ancora. Nulla dunque vi si sottrae! Solo l’eccezione, sembra volerci dire Joker. L’eccezione è lo scarto: qui un nano deforme, l’innocente per forza di cose. Per rompere il cerchio, ma Joker non lo dice, lo scarto dovrebbe trasformarsi in residuo, cioè quel che sta fuori dal sistema e da cui può cominciare un’altra e diversa storia. Viene in mente un altro nano deforme, quello che, nel racconto di Walter Benjamin, è nascosto dentro l’automa con cui sconfigge il più grande giocatore di scacchi del mondo. Ma questo è davvero un altro film.

Fausto Bertinotti

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