Ieri, prima di partire per la Florida, Donald Trump ha annunciato così il suo arrivo: «Vengo per abbracciarvi e baciarvi tutti, grandi uomini e bellissime donne della Florida». Euforico, ma più che altro challenging, sfidante, naughty, disobbediente e mandando in scena lo spettacolo di un presidente al settimo cielo che anziché dal Covid sembra uscito da una Spa. E Anthony Fauci, il più celebrato virologo e pandemiologo del pianeta, ha commentato con sarcasmo: «Questo significa andarsele a cercare». Motivo per cui immediatamente tutti i telegiornali, siti e quotidiani del mondo si sono messi sulla stessa sintonia per dire buuuh!, vergogna, che idiota arrogante, incompetente. Vorrei partire da qua: dall’unanimismo della caccia allo stregone. Sintonizzatevi sui canali, i social, i siti e vedrete accendersi questa aurora boreale dello sdegnato anti trumpismo. Ma: è forse qualcosa di nuovo? No, assolutamente. È un vecchio e automatico riflesso condizionato.

Dove l’abbiamo già visto? Ricordate le scorse elezioni del 2016? Gli anchorman americani svenivano in diretta quando dovevano ammettere che Trump aveva vinto: «Non posso crederci, ditemi che non è vero…», mormoravano molti. Negli studi televisivi italiani, dove mi sforzavo di mostrare senza conati di vomito perché Trump avrebbe probabilmente vinto, mi trattavano come un miserabile provocatore. E questo è perfettamente normale. Prima di lui i due presidenti Bush, padre e figlio, ebbero lo stesso trattamento. Il primo fu trattato con gelida condiscendenza. Uno che ha comandato la Cia ed è stato vice di Reagan: che cosa vi potete aspettare? Bush padre affrontò l’annessione del Kuwait da parte di Saddam con impeccabile calma, raccolse una coalizione di Stati arabi come l’Egitto, si procurò un mandato delle Nazioni Unite, lasciò a Saddam tutto il tempo e le occasioni per ritirarsi, gli mandò il suo segretario alla Difesa a Bagdad e fece ricevere a New York il ministro degli Esteri iracheno Tarik Aziz che rifiutò sdegnosamente una sua lettera personale. Bush si procurò il consenso dell’Unione Sovietica che ancora esisteva e si chiamava Gorbaciov. Poi chiamò Colin Powell, un afroamericano venuto dai ghetti e che aveva nominato comandante in capo di tutte le forze armate americane e gli dette la green light per sloggiare Saddam, rifiutandosi però di inseguire il dittatore e liberarsi di lui. Fu la più grande operazione militare per quantità e qualità, dal D-day del 1944. Non un applauso dalla stampa liberal che prese nota con aria distratta.

Poi venne Bush figlio, George W., detto brevemente “W”, Dàbliu, che fu trattato subito come un pagliaccio forsennato. Dàblu finì il lavoro di suo padre andando a prendere Saddam a casa, perché c’era stato l’Undici Settembre e l’America aveva bisogno di dare una risposta distruttiva a un settore del mondo islamico e scelse un vecchio nemico della comunità internazionale già condannato dall’Onu con molte risoluzioni, uno che aveva usato gas tossici in una guerra di aggressione contro l’Iran durata dieci anni in cui morirono tutti gli adolescenti. Ma ebbe il torto eterno, Dàbliu, di accreditare la storia delle armi chimiche che Saddam aveva usato contro l’Iran ma che poi non furono mai trovate. Il buuuh mondiale era giustificato, ma concentrato soltanto sulla storia delle armi chimiche: chi se ne frega se Saddam fosse uno dei più terribili assassini di suoi compatrioti, tanto che da loro fu portato in giudizio secondo le leggi del suo Paese, condannato e impiccato scandalosamente davanti ai cellulari che diffondevano il video virale della sua disperazione. Vogliamo parlare di Ronald Reagan? Un attorucolo di film western, un perfetto cretino, un guerrafondaio che porterà il mondo alla guerra e l’umanità all’estinzione.

Non era forse imbarazzante? Non era impresentabile? Non era forse inadatto all’incarico? Come sia andata la storia lo sappiamo: Reagan, insieme all’altra odiatissima Margareth Thatcher a Londra, misero l’Urss e Gorbaciov di fronte a una scelta: o butti giù quel muro e quell’apparato militare aggressivo o oppressivo, oppure ti metteremo di fronte a una corsa alla tecnologia che non ti puoi permettere e che affamerà ulteriormente il tuo popolo. Gorbaciov sorrise, abbatté il muro (i berlinesi gridavano “Gorby! Gorby!!”, pazzi di lui) e quando dovette lasciare l’incarico accettò di farsi fotografare sempre con una borsa Vuitton. Di Nixon, non parliamo. Il vecchio Ricky Tricky Dicky (imbroglione e testa di pene) fu trascinato dalle folle per i piedi e bruciato in effige dopo lo scandalo Watergate, il che va benissimo. Tuttavia – mio giudizio personalissimo e odioso – fu uno dei più grandi presidenti americani perché chiuse la guerra del Vietnam aperta dal divo democratico John Kennedy e aprì alla Cina comunista di Mao Zedong che nel frattempo minacciava la guerra all’Unione Sovietica. Minimo comun denominatore? Tutti repubblicani. Un candidato repubblicano è sempre, prima di tutto impresentabile, imbarazzante e non adatto alla sua funzione.

Se trasferite lo stile in Italia, vedrete che tutti coloro che si sono presentati sulla scena come antitetici alla sinistra finto-liberal rappresentata dal Pci, Craxi e Berlusconi, Cossiga, Forlani e perfino De Gasperi, sono stati sottoposti alla prova del disprezzo. Allora, torniamo a Trump che esibisce dei terribili difetti caratteriali: è “boombastic” cioè chiassoso e provocatore e come sempre ha fama di donnaiolo probabilmente non usurpata. Un peccato, questo, che la sinistra liberal ha affettuosamente condonato a Bill Clinton il quale non si faceva soltanto adorare in ginocchio da una stagista, ma aveva una collezione di ricattatrici che Hillary metteva a tacere, tanto da diventare – Hillary – il bersaglio preferito delle femministe americane. Che cosa ha ottenuto finora Trump? Non soltanto il miglior rendimento dell’economia americana dopo un taglio drastico delle tasse che ha provocato il boom, ma anche la massima crescita dei posti di lavoro degli afroamericani, latinos e stranieri in generale, statistiche alla mano.

Poi è arrivato quello che lui chiama “il virus cinese” e ha preso iniziative discusse e discutibili. Ma non fatevi intortare con la storia che gli Usa hanno il record dei morti per Covid mentre noi siamo i primi della classe: noi italiani abbiamo finora 36mila morti con 60 milioni di abitanti e gli Usa hanno sei volte la popolazione dell’Italia con la stessa percentuale di morti. La brutale perdita dei posti di lavoro è stata quasi interamente già colmata e Wall Street fra alti e bassi sceglie gli alti. È merito suo? Le opinioni sono varie e diverse. E ovvie. Quel che è certo è che il flusso di consensi afroamericani cresce per Trump e scende per i democratici. La catena televisiva Fox è piena di intellettuali neri, conduttrici nere, filosofi di ogni colore e sono tutti trumpisti scatenati. I media liberal, dal New York Times alla Cnn e Washington Post è sempre furiosa con lui, ma questo è normale, in America, dove il gioco politico è sempre duro, spietato, senza sconti, come noi neanche ce lo sogniamo. E ancora: mentre da noi nessuno o quasi ne parla, l’America di Trump si è riarmata con una enorme spesa tecnologica e sta presidiando – nella tradizione anche inglese oltre che americana – la libertà di navigazione calpestata dalla Repubblica popolare cinese nel mare cinese del Sud che ha “soprelevato” centinaia di barriere coralline immerse trasformandole in campi d’aviazione militare e pretendendo di spostare il limite delle acque territoriali in un braccio di mare in cui passa più della metà dell’intero commercio mondiale e del petrolio. Non dimentichiamo che l’Italia di “Giuseppi” è considerata dalle statistiche economiche più o meno una provincia cinese.

Questo è anche uno dei motivi per cui in Italia se ti azzardi a dire che forse Trump non è un mostro, non è sempre imbarazzante e comunque sa fare il suo mestiere, rischi il linciaggio o comunque il cono d’ombra, un luogo invisibile che rende invisibili e che si può frequentare anche senza mascherina. E poi ancora, il boombastico Trump, l’odioso imbarazzante incompetente, ha ritirato quasi tutte le truppe americane da ogni angolo della terra e quasi concluso la pace con i talebani dell’Afghanistan. Non è un vero mostro? Certo, ha questo peccato non troppo originale dell’ “America First” che tutti fanno finta di capire alla rovescia. A prescindere dal fatto che è stato il motto di quasi tutti i presidenti che ponevano i problemi del loro Paese in testa ai loro programmi.

Quelle due parole così odiate vogliono dire che l’America si è rotta le palle di fare la badante al mondo libero, il nostro, che banchetta con i soldi risparmiati dalla spesa militare, sapendo che tanto alla peggio verranno a salvarci i marines e a farsi seppellire nei nostri cimiteri, come hanno già fatto nelle due guerre mondiali e nella guerra fredda, che hanno odiosamente vinto anche se non si deve assolutamente dire. Queste cose, giuste o sbagliate che siano, non vengono mai fuori durante i dibattiti, nel corso dei telegiornali in cui il servizio consiste nell’isolare l’ultima puttanata detta o attribuita a Trump e sputarci sopra ripetendo: imbarazzante, incompetente, incapace, speriamo che lo caccino.

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Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.