Non è difficile delineare – per sommi capi, s’intende – quali idee di giustizia penale debbano entrare necessariamente nel bagaglio di una “lobby riformista” quale ambisce ad essere Il Riformista. Diritto penale liberale e giusto processo, ecco la traccia sicura della risposta a quella domanda. Qualche anno fa, l’Unione delle Camere Penali ha raccolto studiosi insigni del diritto penale sostanziale e del diritto processuale, per definire con rigore scientifico il perimetro ed i contenuti di quei due principi.

Ne nacque il “Manifesto del Diritto penale liberale e del giusto processo”, ora tradotto in tre lingue e dibattuto in diverse università europee, oltre che in quelle italiane: una lettura che mi permetto di consigliare vivamente. Un Paese che voglia dirsi liberale concepisce il diritto penale come un insieme di regole volte a limitare la potestà punitiva dello Stato, non ad armarla; e questo semplicemente perché considera la libertà dell’individuo il diritto fondativo del nostro patto sociale. Dunque, lo strumento repressivo penale, ovviamente indispensabile per lo svolgimento ordinato della vita sociale, deve essere concepito come un’arma da utilizzare con la massima parsimonia.

L’idea invece drammaticamente prevalente nella nostra società, e coltivata trasversalmente a destra come a sinistra degli schieramenti politici, è che ogni condotta riprovevole meriti ed esiga la sanzione penale, dunque la privazione della libertà personale. Di qui la moltiplicazione iperbolica delle norme incriminatrici, delle fattispecie di reato le più fantasiose, nonché l’inarrestabile deriva simbolica delle norme penali, introdotte senza freni per lanciare messaggi securitari o comunque ideologici all’opinione pubblica. Una lobby liberale e riformista è chiamata a combattere questa deriva rovinosa, che oltretutto finisce per strangolare l’efficacia della risposta punitiva.

Ed è di matrice illuministica e liberale l’idea della certezza della pena, che i riformisti devono rivendicare contro la sua sgrammaticata declinazione, purtroppo rumorosamente e largamente diffusa, di certezza del carcere; nonché l’idea che la esecuzione della pena abbia come obiettivi prioritari la tutela della dignità della persona ed il recupero sociale del condannato, piuttosto che la creazione di una discarica sociale, fabbrica di disperazione ma soprattutto di recidiva criminale.

Quanto al processo penale, la sua concezione liberale è ben scolpita nell’art. 111 della Costituzione, che fissa solennemente principi ben lontani dall’essere applicati in concreto nella quotidianità dell’amministrazione della giustizia. E questo a partire dall’assetto ordinamentale della magistratura, dove la carriera unica che accomuna pubblici ministeri e giudici mal si attaglia alla struttura accusatoria del processo scolpita in Costituzione: giudice terzo, equidistante dalle parti chiamate a scontrarsi ad armi pari. Dal giorno successivo alla riforma epocale del compianto Giuliano Vassalli, la natura accusatoria del processo è avversata dalla giurisprudenza di merito e di legittimità, perché è proprio l’idea della parità tra accusa e difesa che non è digerita da una magistratura fortemente connotata da una immanente cultura inquisitoria.

E negli anni il legislatore ha progressivamente inserito, anche da ultimo, continue contaminazioni di natura inquisitoria in ossequio alla costante pressione della giurisprudenza e della iniziativa politica della magistratura associata. Ecco allora che la difesa ed anzi il recupero di quel modello processuale non può che essere un obiettivo prioritario del riformismo italiano. Così come deve esserlo il contrasto deciso alla ormai incontenibile espansione delle misure di polizia (interdittive antimafia e misure di prevenzione patrimoniale in primo luogo) che stanno diventando, ogni giorno di più, strumento privilegiato di repressione penale dei fenomeni criminali, reali o presunti.

Fenomeno questo insidiosissimo, perché sanziona senza bisogno di prove, servendosi del solo sospetto e del generico giudizio di pericolosità del destinatario di quelle devastanti misure. Infine, il tema della informazione giudiziaria, che merita – come infatti accade in questo numero – una trattazione autonoma, per la cruciale rilevanza civile e sociale della questione. C’è da rimboccarsi le maniche, dunque, per i riformisti di questo Paese: una sfida durissima ed affascinante, che occorre affrontare con determinazione e grande passione civile.

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