Inviolabile. Ovvero, passibile delle più vaste, agevoli, penetranti e prolungate intrusioni. Potremmo racchiudere in questo paradosso la sonora smentita che la realtà delle intercettazioni ha dato, nei decenni, alle alte pretese della Costituzione repubblicana quanto a tutela della sfera comunicativa riservata (art. 15). Riecheggiano flebili da lontananze perdute, del resto, le parole di schietta impronta liberale con le quali la Corte europea dei diritti dell’uomo, ragionando sul doveroso rispetto della vita privata da parte delle pubbliche autorità, poteva ancora qualificare l’ascolto clandestino dei dialoghi al telefono come ingerenza «indesiderabile» e di norma «illegittima» in una società democratica (caso Malone c. Regno Unito, 1984): insomma, un’eccezione da evitare, mal tollerata dallo Stato di diritto; praticabile con diffidenza, solo se strettamente necessaria.

La comune esperienza, le statistiche giudiziarie e la retorica dominante nel discorso pubblico, complici l’inarrestabile potenza tecnologica e le emergenze dovute ai grandi fenomeni di criminalità (mafie, terrorismo apocalittico), attestano l’esatto contrario, cioè la pericolosa inclinazione del sistema verso la sorveglianza totale.

Le modifiche via via apportate alla legislazione vigente, numerose quanto caotiche, hanno assecondato la tendenza spionistica in atto: sia tramite l’ampliamento della lista dei reati perseguibili controllando a distanza le comunicazioni riservate, sia con le aperture quasi indiscriminate all’uso dei risultati delle intercettazioni per provare fatti illeciti diversi da quello oggetto dell’autorizzazione originaria del giudice. Fino all’irruzione sulla scena del Trojan di Stato, al vertice dello strumentario poliziesco. Il tribunale costituzionale tedesco ne ammette l’impiego a patto che le figure di reato da accertare tutelino beni preminenti come la vita e l’incolumità fisica, in quanto l’intrusione occulta del captatore informatico lede il diritto fondamentale all’integrità e all’uso confidenziale dei dispositivi digitali (gli smartphone). Da noi, la legge include nell’elenco – come d’abitudine – anche i reati contro la pubblica amministrazione, scelta che altera visibilmente la scala di proporzionalità.

Del resto, sfugge ormai ad ogni criterio di ragionevole misura il regime speciale previsto per il catalogo assai eterogeneo di delitti al quale giurisprudenza e legislazione incollano l’etichetta di «criminalità organizzata», territorio ove le indagini condotte per mezzo delle intercettazioni, pure tra le mura domestiche, sono la regola indiscussa: al pubblico ministero è sufficiente contestare la forma associativa, non importa quale sia il tipo o la gravità del reato commesso, per attingere la soglia massima dei poteri d’ingerenza investigativa; leggi recenti hanno aperto la strada facilitata di ricerca della prova anche a delitti commessi da un’unica persona, in casi limitati che possono tuttavia servire da viatico per ulteriori, poco tranquillizzanti allargamenti.

In tutto ciò, di garanzie individuali si stenta a vedere l’ombra. Il legislatore tesse, disfa e ritesse la tela delle norme che dovrebbero tutelare l’aspettativa di riserbo dei soggetti estranei alla vicenda penale, caduti accidentalmente nella rete di sorveglianza. Con l’unico risultato, beffardo, di innalzare gli ostacoli all’accesso delle difese al materiale acquisito dagli organi d’indagine, custodito negli archivi protetti dopo la selezione della polizia in ascolto. Sarebbe meglio concentrare l’intervento su presupposti, modalità esecutive e durata delle intercettazioni, ambiti nei quali la disciplina è in sé carente e la prassi sorvola sui restanti vincoli legali. Prioritaria è la pretesa di maggiore scrupolo da parte del giudice nella valutazione degli elementi indiziari, ad evitare motivazioni del decreto autorizzatorio meramente riproduttive della richiesta del pubblico ministero.

La legge dovrebbe inoltre specificare quali «categorie di persone» rientrino tra i possibili bersagli dell’ascolto (in tal senso è la giurisprudenza di Strasburgo, Huvig c. Francia, 1990), circoscrivendo il campo all’indagato e a chi si abbia ragione di supporre in contatto con il medesimo (così dispone, ad esempio, il codice tedesco). Il criterio di sussidiarietà andrebbe formulato in modo tale che l’impiego delle intercettazioni, specie se abbinate al captatore informatico, risulti consentito solo quando la prova non sia altrimenti acquisibile con mezzi meno invasivi. Le operazioni, contenute entro lassi di tempo molto brevi. L’ascolto interrotto, non appena le conversazioni nel domicilio virino su argomenti della vita intima. La circolazione dei risultati verso altri procedimenti ridotta a strettissima eccezione.

Stando ai propositi del governo e a qualche testo di iniziativa parlamentare, sembra venuta l’ora di alcune minime limitazioni. La reazione è stata immediata e decisa. Non stupisce che siano i pubblici ministeri a prendere la tribuna nel tentativo di bloccare sul nascere velleità del genere, essendo comprensibile – resta da vedere se giustificato – il timore di dover rinunciare anche solo in parte ad un’arma formidabile; all’«unico» ed «essenziale» strumento di successo – sostengono – nella strenua, incessante lotta contro «chi delinque». Le indagini e il processo penale, da tempo, non mirano più ad accertare la responsabilità riguardante singoli e ben ritagliati fatti di reato. Se è una storia complessa e ramificata che va scoperta, con la sua trama, gli intrecci, le relazioni personali, i sottofondi nascosti, allora le intercettazioni sono il mezzo ottimale e, insieme, quello in grado di lasciare in disparte le regole del contraddittorio nella formazione della prova, quando verrà il tempo del dibattimento. In altre parole esse portano, se intraprese a tutto campo, al definitivo tramonto del processo accusatorio.

Daniele Negri

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