La vicenda giudiziaria di Ambrogio Crespi inizia nell’ottobre 2012, quando, nel cuore della notte, cinque carabinieri mettono sottosopra l’appartamento romano dove tutt’oggi vive con la moglie Helene e due figli. L’accusa nei confronti del regista è pesante: ‘concorso esterno in associazione mafiosa per voto di scambio’: Crespi, chiamato in causa da alcune intercettazioni di terze persone, era accusato di aver procurato voti a Domenico Zambetti, assessore della giunta Formigoni, per le regionali del 2010, servendosi di conoscenze in ambienti della ‘ndrangheta. Duecento giorni di carcerazione preventiva nella casa di reclusione di Opera a Milano, di cui 65 in isolamento. Dopo anni di processi, la condanna definitiva in Cassazione, che spinse Crespi a consegnarsi nello stesso carcere.

Lungo la vicenda iniziata la notte dell’arresto, trascorre complessivamente trecentosei giorni in prigione. Poi la svolta: la scarcerazione del Tribunale di sorveglianza di Milano che scrive: “Sussistono i presupposti per disporre il differimento della pena” in quanto “La difficoltà di conciliare il condannato per concorso esterno in associazione mafiosa di ieri (e questo a prescindere dalle tesi difensive che hanno sostenuto e ancora oggi sostengono l’innocenza del soggetto) con l’uomo di oggi, divenuto simbolo positivo anche della lotta alla mafia, ed il conseguente disorientamento che anche pubblicamente ha generato la sua incarcerazione, appaiono indicativi sulla sussistenza del fumus di non manifesta infondatezza della domanda di grazia, quale mezzo di riparazione in senso equitativo e di rimedio alle possibili incoerenze del sistema rispetto al senso di giustizia sostanziale” Nel settembre 2021 arriva la grazia parziale del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. E insieme a questa, la fine dell’odissea: “Mi sono sempre chiesto perché mi sia successo tutto questo. Non ho ancora trovato risposta” – ci dice.

Incontriamo Ambrogio Crespi per due ore in un bar al centro di Roma ed è un fiume in piena. Non si fa mai prendere dalla rabbia, il tono della voce è controllato. Lo sguardo è fermo, la voce si accende quando dice che la “mafia fa schifo”. Ogni tanto Ambrogio si adombra, la voce si fa fioca e si spezza quando parla di Helene e dei figli. “Affronti tutto, ma non vedere crescere i tuoi figli è devastante. Ho detto ai bambini che ero stato in missione di pace e ogni volta che parto leggo nei loro occhi la paura di non rivedermi tornare a casa per tanto tempo” – ci racconta. La lacrima che riga il volto ancora segnato dal dolore non spegne la voglia di raccontarci la sua visione di ‘giustizia giusta’, quella in cui, nonostante tutto, non ha mai smesso di credere.

Da regista si è occupato di documentari sulla legalità. E ha subìto una condanna proprio per concorso esterno in associazione mafiosa. Sembra un paradosso…
Ho sempre rispettato la giustizia, anche dopo le condanne. Mi sono persino costituito recandomi io stesso in carcere dopo dieci anni di attesa. Ho sempre condotto battaglie di giustizia e di legalità. Ho affrontato tutto questo insieme alla mia famiglia e a tanti amici che mi hanno sostenuto: dalla loro solidarietà ho tratto la forza per combattere. Ancora oggi non capsico come mi sia ritrovato in questa odissea.

Sulla storia di detenuti con pene gravose ha sviluppato un docufilm, ‘Spes contra spem – Liberi dentro’: cosa ne ha tratto?
E’ stato un lavoro molto intenso, fatto nel 2016 con ‘Nessuno tocchi Caino’ e con la collaborazione di Giacinto Sicliano, allora direttore del Carcere di Opera, Santi Consolo ex Capo del Dap e con il plauso dell’allora Ministro della Giustizia Andrea Orlando che ha partecipato alla prima al Festival del Cinema di Venezia. Da questo docufilm è emerso che anche un detenuto può avere la possibilità di cambiare. Abbiamo intervistato persone su cui pendevano reati gravi: hanno tirato fuori tutto il male che avevano dentro e hanno dimostrato che è possibile reinserirsi nella società. Chi dimostra di non essere più il reato commesso va aiutato a prendere una strada di legalità: bisogna raccontarlo nelle scuole e ribadire che la strada verso la mafia è un cammino maledetto.

Lei è stato nel carcere di massima sicurezza. Cosa le ha lasciato questa esperienza?
Spesso passa l’idea che il carcere sia un luogo di potere, ma non è così. Il carcere è un luogo di dolore, di umiliazione, dove si azzera tutto. Però bisogna chiarire un fatto: non è ‘colpa’ della giustizia che apre le porte del carcere, ma dei reati di cui ci si macchia.

Quindi il carcere per essere ‘utile’ deve essere riabilitativo?
Serve riabilitazione in carcere e reinserimento fuori, come ha fatto Siciliano nel carcere di Opera o sul modello di San Vittore. Il carcere che ti mette dentro e butta le chiavi non serve a nulla. Ma se il carcere ti cambia, dandoti la possibilità quando esci di lavorare, allora assurge al suo compito. Se invece esci e non hai più niente, rischi di tornare a commettere reati perché non hai più un motivo per vivere.

Negli ultimi trent’anni in Italia 30mila persone sono finite in carcere da innocenti…
Il dato sugli errori giudiziari è altissimo: c’è chi non ha la forza di difendersi, è stato condannato in Cassazione e poi ha fatto anni di carcere da innocente, come è successo a Giuseppe Gulotta. Non si tratta di malagiustizia in generale, ma di errori di singoli uomini. C’è chi ha il potere, anche senza prove, di arrestarti e portarti a processo cercando a tutti i costi la propria verità. Ma soprattutto esiste la presunzione di reato, che è percorribile senza prove. Il Pm deve essere una tutela, e invece a volte quando arriva l’avviso di garanzia sei già condannato: il caso Enzo Tortora insegna.

Crede ancora nella giustizia?
Assolutamente sì. Non si può fare di tutta l’erba un fascio: dovremmo valorizzare i buoni giudici che si prendono le proprie responsabilità, non parlare solo di coloro che sbagliano. Abbiamo il dovere di tutelare gli uomini che fanno un buon lavoro.

E il ruolo della politica?
Certi politici che vengono colpiti personalmente da un processo iniziano a fare battaglie per la giustizia giusta. Poi cala il silenzio. La politica deve intervenire nei tempi corretti: chi sbaglia deve pagare, il giudice che non sbaglia va tutelato, se no si fa un favore alla criminalità. Più è debole la giustizia, più si rafforza la criminalità.

Il referendum del 12 giugno è utile?
A cosa è servito il referendum su Enzo Tortora? Non mi pare sia cambiato molto. Il referendum, dando la possibilità ai cittadini di esprimersi, è un fatto positivo. Lo condivido in quanto tale ma non è risolutivo.

E cosa è risolutivo?
Bisogna aprire un tavolo con i giudici, la politica, i cittadini per evitare casi di malagiustizia. Il ministro Cartabia sta lavorando molto bene ed è nella giusta direzione, va sostenuta.

I tuoi figli che messaggio darai dopo questa esperienza?
I miei figli hanno sofferto tantissimo la mia assenza, non è stato un momento facile per le loro vite perché sono bambini cresciuti in un contesto di legalità e rispetto delle regole; questo è stato il motivo principale che ci ha spinti a raccontargli che io fossi un agente segreto reclutato per una missione di pace e non di certo un detenuto. Ma soprattutto questo ci ha permesso di far sì che in loro non nascesse un odio e un rancore verso la divisa.

Come vedi il futuro?
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il ministro Marta Cartabia e il giudice di sorveglianza, con il loro lavoro e il loro coraggio, mi hanno dato la forza di tornare a vivere.