Una delle principali criticità emerse dalle anticipazioni del Rapporto Svimez, a mio parere la più stridente, riguarda un aspetto che la pandemia ha acuito e portato alla luce in maniera inequivoca. Ci troviamo, infatti, dinanzi a una «frammentazione dei percorsi di sviluppo regionali», sostiene Svimez, che emerge dai dati mecroeconomici, ma che a ben pensarci rispecchia l’Italia di oggi: un aggregato di istituzioni regionali che tendono ad andare ciascuna per conto suo. Una spinta centrifuga che dovrebbe destare preoccupazione in chi è alla guida del Paese, poiché tale tendenza può rivelarsi elemento tossico per la ripartenza che invece, per essere efficace, deve produrre un incremento del pil non a macchia di leopardo, ma tale da restituire nei tempi dovuti la quota di debito che abbiamo contratto attraverso il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): parliamo di circa 191 miliardi, di cui quasi 69 in sovvenzioni e oltre 122 in prestiti.

La frammentazione regionale, diventata ormai un dato strutturale nel corso degli ultimi venti anni, è il vero freno. Tanto più che non riguarda soltanto il Sud: persino una locomotiva industriale come il Piemonte vede crescere la propria distanza rispetto al gruppo di testa composto da tre regioni del Centro e del Nord – Emilia Romagna, Lombardia e Veneto – che dall’inizio degli anni Duemila si sono progressivamente staccate dalle altre. Il rischio di una resilienza a variabile territoriale, quindi, c’è tutto. E sarebbe bene che le autorità di governo tenessero tale fenomeno nel dovuto conto, non limitandosi (solo) a cantare le magnifiche sorti di un’Italia che si mette alle spalle l’emergenza Covid. Ripeto il concetto: la pandemia ha posto in evidenza che l’inclinazione a fare ognuno per sé, in nome di un malinteso regionalismo differenziato, resta il nemico da battere perché può spezzare le gambe al rilancio del Paese. In economia il fattore più importante è la capacità, per dir così, di portare la somma degli interventi a fare l’atteso “totale” della crescita duratura, in grado di riportarci come nazione tra le più attive nel fornire all’Europa la spinta di cui ha bisogno nella competizione internazionale.

E veniamo al nostro Sud che rischia ancora una volta di rimanere più indietro, anche più di prima, stando alle rilevazioni di Svimez. Se è vero che il divario del Paese rischia seriamente di rafforzarsi nel post-pandemia, il pericolo è che la ripartenza lo spaccherà in due ancora una volta, forse irrimediabilmente. E a poco vale sapere che la Campania conta su proiezioni di crescita del 4,2% nel 2021, quindi superiore al Mezzogiorno (+3,3%), con una ripresa di pil che dovrebbe incrementarsi anche nel 2022, sia pure con minore intensità. È un tassello del mosaico, una pietra dell’arco. Affinché “la somma faccia finalmente il totale”, a nulla servono le macchie di leopardo: occorre una ripresa omogenea del Mezzogiorno che così diventa una leva consolidata di rilancio.

Il Covid ci ha messo di fronte a una evidenza: usciamo dalla crisi se le energie del Paese trovano la sintesi, ossia nuove forme di condivisione assicurate da uno spirito unitivo. Se ognuno va per conto suo, non si salva nessuno. Non sottovaluterei il monito che emerge, per esempio, da Fabio Panetta, esponente italiano nell’esecutivo della Banca centrale europea. Nell’intervista resa ieri al Corriere della Sera, Panetta afferma che in Europa non serve solo una economia capace di andare “su di giri”, se poi resta il rischio di una ripresa incompleta.

Ecco perché sostengo che la lotta alla frammentazione regionale è la madre di tutte le battaglie. Pensare di affrontare la competizione dei mercati globali senza suscitare la formazione di filiere extraterritoriali e reti lunghe è prospettiva perdente. E pensare a una ripresa senza stimolare il pieno coinvolgimento delle forze produttive, a partire da settori e sistemi d’imprese in grado di investire, non è meno esiziale. Anzitutto nel campo della innovazione, che è la leva maggiormente in grado di modificare il modo d’essere delle imprese e che può influire sull’ambiente innescando un circolo virtuoso che stimola produttività, crescita economica e tenore di vita del Paese. Un campo in cui l’economia meridionale ha ancora margini importanti da recuperare mediante la maturazione digitale delle imprese, oltre che rafforzando la dotazione delle infrastrutture fisiche.

Il Mezzogiorno si caratterizza da alcuni anni per un sistema di ricerca e formazione di qualità, crescita di piccole e medie imprese e start-up innovative, accentuata voglia di impresa, anche grazie alla spinta dell’imprenditoria giovanile. Se il Pnrr non si rivelasse occasione per allinearlo a un’accettabile media di sviluppo, a perderci stavolta non sarebbe solo il Sud. Negli scenari futuri a breve e medio periodo non basterà contare su tre o quattro regioni più dinamiche che staccavano il gruppo delle altre fungendo da motrici. Il mondo è cambiato e nel nuovo contesto globale l’Italia non può più permettersi di detenere il divario interno più ampio d’Europa. (fabio de felice)