“Gli imperativi politici del Rinascimento africano sono ispirati dalla storia dolorosa degli ultimi decenni e dal fatto che nessuno dei nostri paesi è un’isola che si può separare dal resto”. Prima di essere tacciato di appropriazione neocoloniale indebita, mettiamo subito in chiaro che la frase è del 1998 e di Thabo Mbeki, l’allora presidente sudafricano che successe a Nelson Mandela. L’anno successivo vede la luce a Pretoria l’Istituto del rinascimento africano, con l’obiettivo di “radunare una massa critica di scienziati africani di prim’ordine […] per produrre importanti risultati nella dimensione economica”.

All’indomani della riunione dei Ministri degli Esteri del G7 a trazione italiana, è stata riaffermata ancora una volta la centralità dell’Africa nello scacchiere geopolitico mondiale. Ma ad un quarto di secolo dagli annunci sudafricani, l’Africa per noi europei e italiani continua a sembrare una sfida persa in partenza.
Sulla carta, la formazione delle loro classi dirigenti costituisce un asse portante della nostra strategia, non ultimo nel nascente Piano Mattei. Ma in un gioco di dissonanze cognitive, alle parole non hanno davvero corrisposto i fatti. Diamo invece segnali politici che vanno in direzione diametralmente opposta e, quel che è peggio, ci illudiamo di credere che i nostri dirimpettai africani li accettino supinamente.

Ormai da tempo non è più così. Penetrazione economica cinese, acume diplomatico indiano (che ha reso possibile l’inclusione dell’Unione africana nel G20), disinformazione russa surclassano da anni l’influenza europea e americana. I risultati di recenti sondaggi condotti dall’Afrobarometer parlano chiarissimo. La Cina è percepita come l’attore con maggiore influenza nel continente, seguita dagli Stati Uniti. Perfino la Russia continua ad essere vista favorevolmente dal 38% della popolazione africana, a dispetto dei mercenari del Gruppo Wagner che continuano a scorrazzare indisturbati e del grano che arriva a singhiozzo a seconda di come si sveglia l’inquilino del Cremlino. Il 48% degli africani si dichiara non consapevole degli investimenti o prestiti cinesi e il modello di sviluppo propugnato da Pechino è visto con favore, in virtù degli effetti su infrastrutture e creazione di posti di lavoro.

L’Europa e l’Italia al suo interno arrancano. Dai sussidi alla nostra agricoltura alle barriere commerciali a perversi legami politici ed economici perpetuati da paesi quali la Francia, è difficile creare presupposti di buonafede verso di noi. L’Unione europea, più rigorosa e neutrale, è vista con maggior favore. Ma nella dinamica brutale della competizione geo-economica globale è percepita al massimo come strumento ma non come attore.
Sorprende che a fronte di questi limiti palesi, noi europei ed italiani in particolare sembriamo ignorare ciò che davvero ci contraddistingue. Evidentemente i retaggi coloniali europei rendono la nozione di soft power molto scivolosa e dolorosa, come diceva Mbeki. Ma il “soft power”, scriveva il politologo statunitense Joe Nye, è la capacità di attrarre e di persuadere, opposta a quella coercitiva delle logiche militari e geopolitiche. Ancora oggi, ci dice sempre l’Afrobarometer, la democrazia e lo stato di diritto rimangono i modelli di governo preferiti dal 70% della popolazione africana; autocrazia, partiti unici e regimi militari rifiutati dall’80% degli interpellati. Ma invece di aggrapparci metaforicamente al giubbotto di salvataggio che ci offrono i nostri valori, scegliamo di affondare materialmente le nostre controparti in logiche motivate dall’immigrazione e dall’esternalizzazione delle frontiere.

Non sfuggirà che nella narrazione del Rinascimento africano l’Italia possiederebbe una riserva inesauribile di soft power. Meno noto che proprio a Firenze, all’Istituto universitario europeo, abbiamo pilotato l’unico programma di formazione per giovani leader africani finanziato dall’Unione europea. Per tre mesi l’anno, partecipanti di alto potenziale provenienti dal privato, pubblico e terzo settore di tutti i 54 paesi dell’Unione africana ricevono un training avanzato su tecniche negoziali e di leadership, nella governance del clima e del digitale, impartite da docenti africani ed europei.

Abbiamo formato in questo modo circa cento giovani leader, provenienti dalle organizzazioni regionali, dalle think tank e dalle miriadi di start-up in settori quali la finanza sostenibile o la salute pubblica. Non vengono in Italia per trasferirsi ma per rifinire e scambiare know-how che spesso già possiedono in maniera molto più articolata delle loro controparti europee. Serve a loro quanto a noi, per creare una comunità di intenti che sosteniamo al loro ritorno, dove ci hanno aiutato a lanciare a loro volta programmi di formazione, da Kampala ad Accra a Johannesburg. Un effetto moltiplicatore dove i “formati” diventano “formatori” e creano un volano di crescita, scambi e benevolenza reciproca. Se si dovesse ridurre ad un becero slogan: dall’”aiutiamoli a casa loro” all’“impariamo insieme a pescare”.
È una goccia nel mare: circa 20 mila giovani hanno fatto domanda ai nostri bandi negli ultimi tre anni. Nello scorso decennio, la Cina ha offerto 23 mila borse di studio a giovani africani. E il programma di riferimento rimane quello lanciato da Obama nel 2015, che insieme ad attori privati americani forma ogni anno 700 giovani leader africani negli Stati Uniti.

Ma è difficile immaginare per l’Italia una narrazione più potente ed evocativa di un Rinascimento africano che riparte dalla sua culla e ne condivide lo spirito. Una narrazione che va al di là del simbolismo, ne reinventa i valori, li adatta al mondo post-occidentale e si riempie di contenuti. Più un superpotere che un soft power, che sembriamo dare per scontato.

Fabrizio Tassinari

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