Manca l'epifania: l'istruzione prestigiosa conviene rispetto all'ignoranza
JD Vance, l’elegia dello zio Jesse Duke di Hazzard

Chissà quanti dei miei 25 lettori ricorderanno la serie televisiva “The Dukes of Hazzard”, che fu trasmessa sulla CBS americana dal 1979 al 1985 e, in Italia, su Canale 5 dal 1981 al 1986. E chissà quanti di loro hanno memorizzato il personaggio dello Zio Jesse, lo zio dei due protagonisti, il più anziano carattere della serie, perennemente rappresentato con un barbone bianco lungo, un cappellino da baseball rosso su cui manca solo la scritta “Make America Great Again“, e una salopette jeans unta e bisunta. Lo zio Jesse è il principe dei buzzurri. Un po’ il capostipite della famiglia Duke, un ex distillatore e trafficante di whisky, ma in fondo in fondo ha un cuore buono.
Ecco, leggendo l’autobiografia (un po’ troppo romanzata) dell’attuale vice-presidente degli Stati Uniti d’America, a me è venuto di pensare a zio Jesse. Magari anche un tipo simpatico, però come dire, non gli affideresti la valigetta nucleare, né lo manderesti in giro per il mondo a parlare di relazioni internazionali. Oddio, non lo manderesti nemmeno in giro per il tuo quartiere a parlare. Diciamo subito che il libro è di quelli utili da leggere. Perché offre uno spaccato di un mondo che difficilmente noi europei conosciamo e, quando lo conosciamo, in genere non lo comprendiamo molto. Il libro è stato poi interpretato come un tentativo di spiegare il successo elettorale di Donald Trump, che ha trovato consenso proprio tra i bianchi della classe operaia americana.
Un memoir. Dalla Sila a Fossano
Siamo nel genere dei memoir più che delle autobiografie. Quindi, come a volte accade, manca un indice tradizionale con capitoli numerati e titoli specifici. La narrazione è strutturata in modo cronologico e tematico, seguendo la vita dell’autore e le sue riflessioni sulla sua famiglia e sulla società americana della sua zona.
Il racconto si apre dunque con la storia dei nonni di Vance, che emigrano dai monti Appalachi del Kentucky – una specie di Aspromonte statunitense – all’Ohio, precisamente a Middletown, in cerca di una vita migliore. Sottolineo subito che la destinazione è appunto Middletown, Ohio, ossia ancora una realtà rurale e provinciale, non certo cosmopolita, ma un po’ meno arretrata e più industriale del Kentucky. Sempre per mantenere il parallelo con l’Italia, è un po’ come se dall’Aspromonte o dalla Sila i nonni di JD Vance si fossero trasferiti in provincia di Cuneo. Ma non Cuneo città. Fossano. Ecco, Middletown è Fossano, e almeno gli abitanti della provincia granda credo mi abbiano perfettamente capito. Va anche detto che almeno Fossano il nome ce l’ha. A Middletown l’han chiamata così perché era il paesone a metà strada fra due cittadine maggiori, punto.
Voglio anche ricordare che i nonni di Vance sono appartenenti al gruppo sociale di chi prende ed emigra per necessità, che già è élite rispetto a chi non ha gli strumenti intellettuali e materiali per capire che è necessario andarsene da un posto che ti affama.
Famiglia altamente disfunzionale
La narrazione procede poi a descrivere l’infanzia e l’adolescenza di Vance, caratterizzate da una famiglia disfunzionale e da una realtà sociale segnata dalla povertà e dalla violenza. Al di là di alcune utili indicazioni sociologiche (che però non suonano certo come originali o sorprendenti) che testimoniano come i Democratici americani dai tempi di Mondale hanno perso contatto con le plebi bianche, operaie, ignoranti che ai tempi di Franklin Delano Roosevelt rappresentavano, vien fuori un ragazzo allevato da una famiglia altamente disfunzionale, con una mamma (scusate se uso termini chiari che vanno al punto, ma cerco di mettermi al passo con la reazione trumpiana, vanciana e mileiana) troja, immatura, drogata e violenta, incapace di essere moglie, madre e figlia. Insieme alle memorie personali di Vance, viene fuori un’indagine superficiale ma comunque interessante sulle condizioni sociali ed economiche che hanno portato alla crisi di questa classe operaia, un tempo pilastro dell’economia americana.
Il bambino è così cresciuto dai nonni, ed è interessante notare che anche suo nonno era stato cresciuto dal di lui nonno, sempre per gli stessi motivi che si ripetono a mo’ di tradizione del Kentucky. Interessanti le figure di questi avi, con una nonna grezzissima, ruvidissima, violenta, ignorante a livelli scatologici (come la merda, insomma) e amante delle armi da fuoco. Le fa da contrappunto un nonno super-solido, ignorante, alcolizzato e… amante delle armi da fuoco. Due belle personcine a confronto dei loro figli e generi, che l’autore descrive così:
“Non potevo credere che il mio mite papà, che adoravo da bambino, fosse un ubriacone così violento. Il suo comportamento era dovuto almeno in parte al carattere della mamma: lei era una violenta non-alcolizzata.”
Due nonni che, nonostante siano della generazione che non si lasciava, si lasciano e vanno a vivere ciascuno per conto loro. Gente che ha l’abitudine di vandalizzare una farmacia picchiandone i lavoratori solo perché il commesso ha osato dire al loro adorato nipote di non prendere in mano un giocattolo che era esposto.
Una panoplia di quaquaraquà per padri
Il ragazzo passa da una figura paterna all’altra, in un turbillon di pochissimi uomini, molti mezzi uomini e una panoplia di quaquaraquà. E’ quello il tipo di appartenente al genere maschile che possa avvicinarsi e trovare in qualche modo attraente quella schiuma di nulla grezzo di donna che è la sua infima e infame madre. Madre che abusa dei figli quotidianamente. Allevandoli a calci e schiaffi, ma solo quando va di lusso. La nonna però interviene e li salva. Quando la figlia esagera con gli abusi, la nonna la minaccia di “spararle in faccia”, ovviamente mentre è alla guida dell’auto, coi bambini sui sedili di dietro.
La nonna gira SEMPRE armata, quindi la minaccia, anche considerato il personaggio è, come dire, credibile. Misteriosa la figura del padre biologico. A una certa, intorno ai 6 anni del bambino, decide di donarlo in adozione (!!!). Pare per motivazioni della sua Chiesa evangelica, nel frattempo impegnata a diffondere teorie creazioniste e anti-scientifiche che la porteranno, pare e si spera, a morire.
“Sappiamo di non essere all’altezza”
JD Vance ci racconta dell’America dei rednecks, che lui chiama hillbilly, degli Appalachi, dal Kentucky all’Ohio, in mezzo a povertà, ignoranza, diffidenza verso il prossimo. Uno spaccato di America bianca veramente ma veramente plebea, spaventata da tutto ciò che non conosce (ossia, da tutto), anche quando i vicini di casa erano altri bianchi ignoranti dalle stessa radice etnica come loro, figurarsi quando sono cominciati ad arrivare i primi afroamericani, i primi italoamericani e così via. Vance descrive come la deindustrializzazione, la disoccupazione e l’epidemia da oppiacei abbiano devastato le comunità del Midwest, lasciando dietro di sé rabbia e disillusione. Un’America anti-americana, e a volte perfino Vance se ne rende conto, come quando scrive:
“Per molti di noi, la libera stampa – storico baluardo della democrazia americana – è semplicemente un inganno. Con quella sfiducia totale della stampa, è ovvio che non si facciano verifiche sulle teorie cospirazionista che girano su Internet:” (190)
E’ un’autobiografia ben scritta (i cattivi dicono: e certo, mica l’ha scritta lui) ma il dramma è che descrive bene una feccia di umanità orgogliosa e tutto sommato consapevole di essere feccia, fra abusi di alcol, droghe, farmaci, pallottole, polvere da sparo, odio, disagio, manipolazione e distorsione del sentimento religioso nei confronti di un Gesù Cristo tutto loro e in favore della giustizia fai da te, diffidenza verso la scuola, la società, l’informazione, il giornalismo, lo Stato federale. Quando dico che la feccia è consapevole lo dico perché Vance lo ammette per primo:
“Sappiamo di non essere all’altezza. Lo vediamo tutti i giorni: nei necrologi dei teenager che omettono vistosamente la causa di morte (leggendo tra le righe si capisce che è un’overdose), negli sbandati con cui vediamo il nostre figlie e sprecare il proprio tempo. Barack Obama fa risaltare le nostre insicurezze più profonde. È un buon padre, mentre molti di noi non lo sono. Indossa abiti adeguati alla sua posizione, mentre noi indossiamo la tuta, se siamo così fortunati ad avere un lavoro. Sua moglie ci dice che non dovremmo dare da mangiare ai nostri figli certe cose, e noi la odiamo per questo: non perché pensiamo che abbia torto, ma perché sappiamo che ha ragione.” (189)
Il peana sui Marines
Nell’ultima parte dell’autobiografia c’è un lungo peana nei confronti del corpo dei Marines, nel quale il protagonista trascorre 4 anni andando in Iraq. Mancano qui, curiosamente, considerazioni politiche su quanto errata fu quella guerra voluta dal vicepresidente Cheney, falsificando atti ufficiali e costringendo mezzo governo a mentire in pubblico. In quei 4 anni i Marines gli impartiscono dei chiari valori occidentali, tipo rifarsi il letto, trattare gli iracheni con rispetto (al di là del fatto che gli USA ne abbiano sterminato circa 550.000 stando a uno studio della Brown University, ma questi sono dettagli woke). I Marines gli insegnano a considerare le banche non come tutte uguali e che se paragoni i vari tipi di prestito offerti non finisci all’inferno. Cose così, che in un mondo normale dovrebbero provenire dai tuoi genitori o al limite al limite, dalla scuola.
Più interessanti ancora le ultime pagine, dove JD Vance riflette su quanto egli stesso sia cambiato dopo il periodo nei Marines, che avendogli dato una direzione e una dirittura morale, lo aiuta a entrare addirittura a Yale, dove il resto della sua metamorfosi avviene: da hillbilly ignorante e violento ad avvocato laureato in una delle università più prestigiose al mondo che, guarda un po’, per i proletari poveri come lui scopre essere più a buon mercato grazie alle tante borse di studio, delle mediocri università sotto casa dell’Ohio: vuoi vedere che l’istruzione d’eccellenza, tipica degli uomini alla Obama e non degli hillbilly alla fine, non è poi così male? Qui Vance riflette sul solco che la sua formazione a Yale ha scavato fra il nuovo lui e il vecchio lui, e inevitabilmente fra il nuovo lui e le sue radici, la sua famiglia allargata di bianchi bifolchi ignoranti e violenti.
Manca l’epifania: l’istruzione prestigiosa conviene rispetto all’ignoranza
Purtroppo l’autore non ha il coraggio, alla fine di questo racconto autobiografico, di rivelarci la sua epifania. Di fare una semplice ammissione: che i valori tipici dei progressisti, l’istruzione delle università d’elite, la cura dell’educazione alimentare, del parlare senza accenti regionali e rispettando la grammatica è meglio. Infinitamente meglio, sotto il profilo della qualità della propria vita, che non il sentirsi legibus solutus. E’ meglio di credere di poter risolvere tutto con l’odio verso il diverso, una pistola e pregando un Cristo fantascientifico, nazionalista e violento. Un Cristo-Darth Vader che, per fortuna, non è mai esistito se non nelle loro menti marce. L’unico passaggio dove Vance affronta di lato questo tema, è quando dice.
“Ma c’era anche qualcos’altro. Più mi rendevo conto di quanto ero diverso dai miei compagni di corso a Yale, più mi riscoprivo simile alle persone che frequentavo a casa mia.” (202)
E poi racconta dell’episodio dell’incontro con una donna sconosciuta a una pompa di benzina vicino casa della zia Wee. La donna porta una maglietta di Yale e il “nostro” si vergogna di ammettere che lui è un alumnus di Yale. Se lo facesse, sentirebbe di tradire le sue origini buzzurre.
Se questa è la normalità degli USA, se questa è la loro “vera” classe media di oggi, quella che ha determinato la vittoria di Trump, siam messi bene.
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