Che ne è stato dei sassi che abbiamo gettato in solitaria nel quieto stagno del conformismo giornalistico sulla liquidazione di Marco Mancini, esponente di lungo corso, bravo ed esperto, dei nostri servizi segreti? Avevamo ipotizzato l’obbedienza dell’autorità delegata per i servizi segreti (il sottosegretario Franco Gabrielli) alle pressioni endogene di Report (Rai), Repubblica, La Verità, con l’aggiunta successiva di Stampa e Corriere. Silenzio. Nessuna smentita. I due bracci della tenaglia (quello mediatico nel ruolo di ispiratore e quello istituzionale che ha eseguito) erano stati messi davanti all’evidenza di come la reputazione e la stessa vita di Marco Mancini erano state messe in pericolo, senza lasciargli alcuno spazio di difesa. Come hanno reagito? Si pascono del risultato ottenuto. Coprire, dimenticare.

Ma la vanità gioca brutti scherzi. Nel nostro caso il principale protagonista televisivo della pubblica garrota di Mancini non ha resistito alla lusinga di esibirsi da étoile sul palcoscenico della gloria. Ma questo ci consente di esercitarci di nuovo per dimostrare come quella alleanza continui. Al solito, da poveri don Chisciotte, convinti come Cervantes che i giganti si travestono da mulini a vento per far passare per scemo il cavaliere, ma noi non la beviamo, preferiamo la libertà. Breve sintesi delle puntate precedenti. Usando esclusivamente virgolettati delle citate testate, Il Riformista con due successive uscite (8 e 9 giugno) aveva esposto le impronte digitali del torbido che ha consentito ad ambienti dei servizi segreti di estromettere “con disonore” (Repubblica) il nostro forse miglior agente segreto, Marco Mancini – di certo il più apprezzato dalle agenzie di intelligence occidentali e il più temuto al di fuori della Nato – , grazie alla semplice reiterata esibizione della sua immagine mentre parla nel parcheggio di un autogrill con Matteo Renzi.

Non esistendo foto da 16 anni di Mancini, il riconoscimento è stato ottenuto interrogando un ex agente del Sismi-Aise mascherato, consapevole di violare – lui sì – disciplina e onore. Insomma. Il legame con i servizi per eliminare uno dei servizi è lampante. Non potendo esibire alcuna condanna di Mancini, e neppure violazioni disciplinari, si procede per insinuazioni. Fino a provocare la decisione di emettere una direttiva che, annunciata l’11 maggio al Copasir e diffusa dai quotidiani immediatamente, viene formalizzata nei giorni seguenti. Ma applicata retroattivamente – un incredibile capottamento dello stato di diritto – per buttar fuori Mancini. Noi ci permettiamo a nostra volta di identificare l’immoralità di un programma moralizzatore.

La coda del diavolo spunta infatti tra i ciclamini che ornano, visibili a noi ormai mistici devoti di Report, la testa del conduttore Sigfrido Ranucci, che sorride sempre, contentissimo degli scalpi della sua collezione. Che gioia far fuori la gente cattiva. Non basta farla eliminare, occorre esporne la testa tagliata su una picca. La quarta puntata di Report, divisa in tre sotto-puntate, fantastica innovazione, è stata così dedicata non a Osama Bin Laden o a Matteo Messina Denaro, ma a Marco Mancini. A Ranucci qualcosina era andato di traverso. Deve dimostrare che il suo lavoro da scotennatore aveva ragioni più profonde di un appuntamento in autogrill, per quanto a nessuno sfugga l’efferatezza di avervi incontrato Renzi, che secondo lui basterebbe e avanzerebbe. Non gli va giù di essere identificato come un killer che spara a tradimento per conto di un’ala della nostra intelligence che ritiene Mancini «una bomba a orologeria» (Carlo Bonini su Repubblica) da disinnescare prima che possa far saltare per aria l’establishment di barbe finte con patrimoni occulti molto molto veri.

Ed ecco allora che si fruga in vicende di diciotto o quindici anni fa. Sono vicende per le quali Mancini è stato assolto o prosciolto. Bisogna dimostrare che magari la magistratura non ha potuto strizzargli il collo in Calabria o a Milano, ma Report invece ci riesce. Peccato che Carlo Bonini, che di questi servizi è stata buona fonte con articoli usciti in sequenza serrata negli anni su Repubblica, non abbia fatto conoscere ai suoi numerosi lettori che un giudice civile gli ha dato torto proprio sul tema. Lo scorso 7 giugno, e le carte circolano tra i giornalisti, ma nessuno chissà perché lo scrive, forse per dare la precedenza a Report, che dovrà risarcire, con l’editore Gedi, Mancini, per averne offeso la reputazione, con le ricorrenti formule di “opaco”, “uomo nero”, “doppia obbedienza”, “sussurrava all’orecchio” eccetera. Siamo in primo grado. Poi ci sarà il secondo, e si vedrà.

Stessa faccenda è capitata a Fabrizio D’Esposito del Fatto Quotidiano, per un articolo diffamatorio su Mancini proprio a proposito delle vicende calabresi oggetto di Report del 14 giugno. Erano i tempi di Antonio Padellaro, la pubblicazione è del 16 marzo 2014, e l’ordinanza che condanna al risarcimento è del 12 settembre 2017.
Per questa sana tempra di amici dei giudici e dei pm, i giudici contano soltanto quando danno ragione alle loro tesi. Così come il segreto di Stato è da essi inteso solo come artificio per salvare Mancini da condanne sicure.
Giacomo Stucchi, senatore leghista che presiedette il Copasir dal 2013 al 2018, in questi giorni, è intervenuto in questi giorni sul caso Macini. E’ stato ignorato da tutti. Ovvio, infatti lo ha difeso vigorosamente. C’è una ragione: conosce come stanno le cose. Fu lui a richiedere alla magistratura gli atti a proposito delle gravissime minacce che imposero la scorta all’agente segreto.

I membri del Copasir, così puntuti sugli autogrill, dovrebbero studiare un po’, visto che possono accedere alle carte: apprenderebbero che su certe strani addentellati che portavano le indagini in una spiacevole direzione (forse interna all’Aise), l’allora direttore dei servizi esterni, Alberto Manenti, oppose il segreto di Stato. Se ci fosse coerenza, Repubblica e Report informatissimi sul Copasir e con eccellenti agganci con i vertici, potrebbe magari scavare un pochino.

(Fine prima parte)