Cosa cantava Enzo Jannacci? “La televisiun la g’ha na forsa de leun…la televisiun la t’endormenta cume un cuiun”. Report più che del leone ha mostrato i denti della iena. Di certo però ha espresso una forza bestiale nella sua capacità di processare e consegnare al plotone d’esecuzione governativo il reprobo, riuscendo ad addormentare, anzi ipnotizzare qualsiasi forma non diciamo di garantismo, non esageriamo con le pretese, ma persino di pallido habeas corpus, anche solo di impercettibile finzione di civiltà.

Qui si parla del trattamento riservato in questa giungla che è l’Italia a Marco Mancini, consegnato alla morte civile, all’isolamento sociale, e forse anche a vendette jihadiste, perché? Perché una campagna insistita, ossessiva, del famoso programma di Rai3, accompagnato dal martellamento di Repubblica, La Verità e il Corriere, nonché la Stampa e infine dei tg Mediaset, ha spiegato che è un tipo “losco” anche se è incensurato, anche se è stato assolto e prosciolto, dopo essere stato arrestato due volte e consegnato per quasi un anno alla custodia cautelare in carcere e agli arresti domiciliari. Nessuna scusa per l’errore-orrore tant’è tipico. Tutto questo è stato capovolto di senso: l’hai fatta franca, ma ora ti incastriamo.

Ed ecco il filmato stupendamente dilettantesco, sfuocato, spampanato, che fa tanto miracolo della casualità, dunque giustizia divina: lo hanno sorpreso mentre parlava con un senatore della Repubblica, anch’egli incensurato, ex presidente del Consiglio, l’antivigilia di Natale fuori da un autogrill vicino a Roma. Su questo tre puntate di Report.
Fin qui niente di nuovo, ma per la prima volta tutto questo non ha suscitato il più piccolo cenno di dissenso, neppure un “però”. Forse perché chi ha comandato il trattamento alla Dreyfus per Mancini, con le mostrine strappate per il godimento della folla, senza però nessun J’accuse di un difensore alla Zola, è stato l’ “infallibile” Mario Draghi, avendo come certificatrice di giustizia Marta Cartabia. Non devono averci badato, Draghi e Cartabia, con tutto sto Recovery plan e Pnrr, rinascita e resilienza, eccetera, per cui un gattino può capitare finisca sotto le ruote. Con il loro senso del bene e del male, e la capacità di provvedere a dare empito morale alla voglia di rinascita morale prima che economica e sanitaria dell’Italia, una lieve imperfezione è consentita per placare un minimo di voglia di sangue.

Noi qui però insistiamo. Ehi, fermati un attimo Draghi, come hai fatto quando la tua auto ha tamponato per la fretta la vettura di un cittadino. Scendi dalla macchina, guarda sotto le ruote chi hai tirato sotto. Siamo stati i soli sul Riformista a titolare “Macelleria Report” sin dai primi di maggio, ma qui non siamo più a un linciaggio televisivo reiterato e al suo perché, ma alla domanda che ci sgomenta un tantino di come si debba collocare nella vita di questo Paese, la fucilazione alla schiena decretata dal governo, praticata dinanzi alla folla plaudente, come in Iran, e senza possibilità per l’uomo reso pupazzo da Report, di dire una parola, non foss’altro di confessare il delitto, come si usa in Corea del Nord. A Pyongyang, ma prima in Unione Sovietica, si faceva firmare una dichiarazione con l’ammissione del tradimento. Da noi non c’è stato bisogno.

Marco Mancini, 60 anni, è da 42 anni uno che lavora per la sicurezza dello Stato. Prima nella squadra di Carlo Alberto Dalla Chiesa. E’ stato lui ad arrestare in viale Monza a Milano, senza usare la minima violenza, Sergio Segio, capo di Prima linea. Nel 1988 si è dimesso da sottufficiale dei carabinieri ed è entrato nel servizio segreto militare (Sismi, ora Aise). Anche chi lo ha voluto fulminare riconosce la sua bravura in territori sensibili. Diventa capo del nostro controspionaggio. Viene arrestato nel luglio del 2006 per la “rendition” (sequestro e trasferimento in Egitto) di Abu Omar condotta dalla Cia nel febbraio del 2003, ma che sarebbe avvenuta, secondo la Procura di Milano, con la complicità del Sismi. Si dice che sia stato condannato ma salvato dal segreto di Stato. In realtà la Corte Costituzionale – fatto unico nella storia repubblicana – ha annullato anzitutto la sentenza con cui la Corte di Cassazione rinviava alla Corte di appello la prima sentenza di assoluzione. Per cui quella condanna non è stata annullata, semplicemente non sarebbe dovuta esistere.

In questo modo l’assoluzione ha toccato tutti i dirigenti del Sismi, dal direttore Pollari ai capi reparto tra cui appunto Mancini. Un’inchiesta interna al Sismi negli anni scorsi, condotta dai successori di Pollari, ha documentato – come rivelato da varie fonti senza alcuna smentita – una verità diversa da quella sostenuta dall’accusa nei vari dibattimenti. Si dimentica tra l’altro che il segreto di stato non può coprire reati quale può essere il rapimento, ciò per cui ha invece patteggiato un maresciallo del Ros. Ma accusare suggestivamente di rapimento Mancini è diventato un topos narrativo dei giornalisti pistaroli, con la classica aggiunta dell’aggettivo “opaco”. Siccome non ci vedono loro, non danno la colpa al loro occhio ma alla pagina di storia che loro stessi oscurano.

Pochi giorni dopo essere stato scarcerato Mancini è riarrestato. Stavolta non è più tradotto a San Vittore, dove ricevette la visita di Francesco Cossiga che lo trattò da eroe perseguitato, ma a Pavia. A valergli la cella preventiva, nel caso di indagini e dossieraggi illegali di Telekom, è per lui l’accusa di di associazione a delinquere. Per la quale com’è ovvio non vale alcuna scriminante da segreto di stato. La Gup Mariolina Passanisi lo proscioglie direttamente. La Procura di Milano si oppone. Ma è la Cassazione a bocciare l’istanza dei pm. Su Abu Omar il segreto di stato è stato fatto valere – viste le carte – in ordine di comparizione da Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni e Conte. Coprono un delinquente? Tutti e sette? Mancini è stato trasferito nel 2011 come capo Aise a Vienna, e nel 2014 richiamato a Roma in un ruolo non di azione, ma persino più delicato nel Dis (il dipartimento che coordina l’intelligence interna, Aisi, ed esterna, Aise): custodire la Cassa, controllare le spese, cosa che dà fastidio a molti.

Che nasca da qui l’avvertenza del pericolo, la percezione di quella che Carlo Bonini, lo vedremo, chiamerà “bomba ad orologeria” umana da dissinnescare per il sollievo di una certa parte mano lesta e molesta dello Stato maggiore e minore di questo esercito segreto? Come sanno bene i giornalisti, solo uno che non viene dalla ragioneria, ma ha fatto il mestiere sul campo è in grado di capire furbizie e creste. Pare che la Corte dei Conti – fatto mai prima successo – abbia inoltrato addirittura un apprezzamento per l’attività svolta. Ma ecco che – basti leggere le biografie dedicate a Mancini in queste settimane – gli viene con la tecnica del dico-non-dico gettato addosso il sospetto sulla morte di Nicola Calipari, l’agente del Sismi ucciso a Baghdad dal marine Lozano mentre stava conducendo in aeroporto Giuliana Sgrena, appena liberata dopo un lungo rapimento.

Risale a quel 2005 l’unica foto circolante di Marco Mancini finora, prima cioè di Report. Lo ritrae a Ciampino, mentre scende la scaletta dell’aereo sorreggendo la Sgrena ferita che lui era stato incaricato di riportare a casa insieme alla salma del collega-eroe. Ombre su ombre, il sospetto come anticamera della verità? Direi del rito vudù dello sfregio a distanza. Qui non c’è di mezzo alcun segreto di stato: Conte lo ha tolto dal caso Sgrena. E allora perché?

(Fine prima parte)