Conclusa oggi – in mondovisione e con tutta la solennità che il caso impone – una celebrazione di morte, la Chiesa cattolica tra pochi giorni si interrogherà sul suo futuro, tracciando una direzione di marcia ed eleggendo un nuovo capo, prendendo le mosse da una domanda cruciale: come collocare sé stessa nel mondo in trasformazione. Lo farà come è abituata a fare, procedendo a passi lenti e cadenzati, senza strappi ma con la consapevolezza che anche la più antica e rituale delle istituzioni d’Occidente deve imparare a nuotare in un mare largamente sconosciuto, dove guardare avanti è l’unico orizzonte possibile.

L’Italia è vecchia

Per una di quelle coincidenze minori, a volte grottesche, che la storia ci riserva, negli stessi giorni la misera politica italiana si è fermata, come ogni anno, a litigare sul 25 aprile. Non sul futuro della nostra democrazia, ma sul passato. Come se i Cardinali in Conclave – ci si perdoni il paragone blasfemo – si attardassero dal 5 maggio a discettare sul Concilio di Trento o sul Vaticano II, e da lì facessero derivare le loro scelte. Non sulle sfide che li attendono, ma su come presidiare qualche sepolto imperativo dottrinale. Dunque, la Chiesa è giovane e l’Italia è vecchia? Senza alcun dubbio, direi. Noi siamo un paese vecchio. Non solo per l’età media della popolazione, ma — più profondamente — per l’incapacità di immaginare. Viviamo guardando indietro. Celebriamo, commemoriamo, evochiamo. Il passato è diventato il nostro linguaggio, il nostro rifugio, il nostro campo di battaglia.

La memoria è interpretazione

I giornali pubblicano quotidianamente paginate intere di interviste a persone famose che raccontano storie di genitori e nonni. Nelle trasmissioni di successo in TV l’audience è garantita dalle canzoni degli anni ‘60. Sui social si celebra il buon tempo antico della vita di una volta, il “come eravamo felici quando ci accontentavamo di poco”. Non è vero, nessuna persona normale vorrebbe tornare indietro, se non per recuperare gli anni della sua gioventù. Ma a tanti piace crogiolarsi non nella memoria, quanto nella nostalgia (etimologicamente “il dolore di non poter tornare”). Una memoria che perde il contatto con la realtà. Ma che malattia è questa? È qualcosa di molto umano, e ha solide basi scientifiche. Le neuroscienze ci spiegano che la memoria non è un archivio statico, ma un processo dinamico. Ogni volta che ricordiamo qualcosa, non stiamo semplicemente recuperando un dato, ma lo stiamo ricostruendo, a partire da chi siamo oggi, dalle emozioni che viviamo, dalle idee che ci abitano. La memoria è interpretazione, non registrazione.

Questo Paese ha bisogno di tornare a desiderare

È uno specchio deformante: ci restituisce immagini rielaborate, trasfigurate, adattate ai nostri bisogni e ai nostri timori. Per questo, se siamo tristi e sfiduciati, ci rifugiamo nella nostalgia. E quando questo meccanismo, naturale per l’individuo, diventa collettivo — se diventa stato d’animo di una nazione — il rischio è enorme. Il fatto storico si fa racconto, il racconto si fa mito. E il mito non si discute: si celebra. Il passato smette di insegnare e inizia a imprigionare. Si idealizza. Si cristallizza. Diventa uno strumento per consolidare appartenenze, dividere, al solo scopo di legittimare il presente. Una scorciatoia identitaria che evita di affrontare l’unico vero nodo: cosa vogliamo diventare. Qui sta il cuore del problema: se non guardiamo avanti, la memoria ci imprigiona. Ci impedisce di evolvere, perché ci tiene ancorati a un passato idealizzato, dunque falso. Solo la consapevolezza — la capacità di chiederci chi siamo oggi e dove vogliamo andare — ci permette di sfuggire a questa trappola. Solo un progetto sul domani ci rende liberi dagli inganni del ricordo. Ecco perché questo Paese ha bisogno di tornare a desiderare. Non di rimpiangere. Di progettare, non di commemorare. Di usare la storia per capire, non per consolidare certezze. Il ricordo non ci salverà. Ci salverà solo il desiderio. Il desiderio di rischiare, di inventare, di provare qualcosa che non è mai stato fatto prima. Non si tratta di cancellare il passato. Si tratta di rimetterlo al suo posto. È solo guardando avanti che possiamo dare un senso a ciò che abbiamo vissuto. È solo progettando il domani che possiamo evitare di restare prigionieri di ieri.