Se è vero, come ricorda un proverbio cinese, che la via stretta tra due pericoli è l’unica strada sicura è evidente che il Ministro Giorgetti l’abbia imboccata anticipando, in audizione sulla riforma della governance dell’Unione Europea, un prossimo Documento di Economia e Finanza (DEF) senza troppi dettagli sulle risorse necessarie per le spese già previste nella manovra 2025. I due pericoli tra cui si muove Giorgetti, con il passo di chi ha coscienza della difficoltà del cammino, sono le imminenti elezioni e il quadro economico internazionale. Il primo pe ricolo non gli consente di dichiarare apertamente che i soldi pubblici so no finiti e le risorse andranno trovate con i mezzi più anti chi della finanza pubblica: alzare le imposte o tagliare la spesa. Due misure sempre impopolari in periodo di elezioni. Il secondo pericolo crea difficoltà anche a mettere insieme i numeri principali di finanza pubblica: la crescita attesa, il deficit e il rapporto tra debito e PIL.

In un contesto di mutate regole europee si azzera, finalmente, qualsiasi spazio di manovra in deficit e il Ministro anticipa la prossima procedura per disavanzo eccessivo. Il rallentamento dell’inflazione peggiora le prospettive del rapporto debito/PIL, pur promettendo qualche sollievo sul la spesa per interessi in caso di prossimo taglio dei tassi. La crescita risentirà di una congiuntura internazionale gravata dai conflitti in corso, dalla perdita di efficienza delle catene del valore globali e da una produttività che continua a languire. Insomma, se Giorgetti non ha gridato platealmente “Siamo al baratro!”, ricordando Cinzia Leone in un passato mai troppo dissimile dal presente, non sarà il prossimo DEF a farlo e tutto sarà rinviato a dopo Giugno quando, passata la sbornia elettorale, si dovrà tornare a mette re testa sulle strategie necessarie per aggiustare il bilancio.

Il punto non è se questo governo sia in grado di attuare o meno una strategia qualunque per riparare ai guasti del passato ma almeno capire se tra le due scelte indicate, maggiori tasse o minori spese, ve ne sia una che possa trova re consenso nella maggioranza. Le indicazioni che finora abbiamo avuto ci fanno sperare che questo governo non possa aumentare le imposte. Gli interventi in sede di riforma fi scale sono un tentativo di riduzione della pressione fiscale, seppure in un contesto di risorse sempre asfittiche. Il richiamo della Presidente del Consiglio alla necessità di lasciare in pace le imprese fa ben sperare rispetto alla volontà di non appesantirne i conti economici. Dall’altro lato però non pare ci sia stata alcuna decisa indicazione sulla necessità di ridurre la spesa, con una esponenziale moltiplicazione di strutture burocrati che centrali e di assunzioni nella PA, condite da una revisione del PNRR che impone la ricerca di maggiori risorse pubbliche.

L’unica strategia è sembrata quella del tirare a campa re sperando che il tempo passi sen za che i nodi arrivino mai al pettine. Vedremo se la mancanza di indica zioni chiare su strumenti e misure sarà ancora sostenibile e per quanto tempo, in assenza di una opposi zione capace di gridare in maniera credibile che “il re è nudo” visto che a spogliarlo, tra superbonus e sussidi di varia natura è stata anche quest’ultima in tutti i governi a cui ha partecipato. E proprio l’abbandono dei crediti d’imposta è stata una delle altre importanti novità a cui Giorgetti ha fatto riferimento nel suo intervento. Questo strumento non consentirebbe controlli adeguati e si dovrà tornare a tipologie di intervento effettivamente monitorabili come i contributi. Il disastro delle previsioni sul Super bonus, il cui contatore finale gira impazzito come la ruota della fortuna di Iva Zanicchi, rende queste affermazioni certamente condivisibili.

Se sia lo strumento stesso del credito d’imposta o piuttosto la sua trasformazione in moneta fiscale, effettuata consentendone la cedibilità estesa, ad aver creato questa impossibilità di controllo è ormai materia più per gli studiosi che per i cronisti. Nella dichiarazione di Giorgetti sembra però nascondersi una resa dello Stato rispetto non solo all’azione di verifica e di controllo della spesa pubblica ma anche alla possibilità di preveder ne la misura e gli effetti quanto più il modo di spendere diventa facile ed efficace. Se le stime sul Superbonus e i controlli relativi sono impossibili perché la facilità di fruizione ne ha consentito piena applicazione allora c’è un evidente problema di ruolo dello Stato come soggetto che ritiene di poter indirizzare l’economia attraverso gli incentivi agli individui. Se l’idea è che i contributi sono maggiormente controllabili perché l’iter burocratico ne rende più complesso l’accesso e quindi meno appetibile la fruizione ci troveremmo di fronte a un gigantesco fallimento dello Stato che può ricorrere alla spesa pubblica solo quando è ragionevolmente certo che i cittadini ne utilizzino il meno possibile, perché scoraggiati da procedure complesse che ne riducono la possibilità di accesso, vanificando ne così i presunti effetti benefici sulla crescita economica.

Se le immagini fiche tesi sul benefico impatto della spesa pubblica fossero vere lo Stato dovrebbe concentrarsi sul trovare al tre misure di fruizione facili come il credito d’imposta cedibile ad libitum e magari organizzarsi meglio per capire come fare previsioni migliori. I fallimentari effetti reali sulla crescita del Superbonus, i suoi impatti disastrosi sul bilancio dello Stato e l’incapacità di quest’ultimo di prevederne la misura non ci dicono nulla sui crediti d’imposta in quanto tali ma impongono un ripensamento complessivo dell’idea che la spe sa pubblica possa davvero servire a migliorare le condizioni economiche di un paese. E la diretta conseguenza per salvare il bilancio non può che essere una: tagliare la spesa e rende re più libere imprese e cittadini da imposte e pastoie burocratiche

Carlo Amenta

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