Da qualche settimana, Apple Tv+, la neonata piattaforma streaming targata Apple, ha esordito in anteprima mondiale con una serie Tv che promette di restituire una rilettura dell’adolescenza di Emily Dickinson, in chiave queer e femminista. Considerata unanimemente la più grande poetessa americana, pur non conoscendo alcuna fama in vita, Emily Dickinson (1830-1886) ha attraversato i conflitti civili dell’Ottocento americano da una posizione privilegiata: la finestra della sua camera.  La bella di Amherst (Massachusetts), così come è stata soprannominata, scrisse più di mille poesie su piccoli fogli di carta, cuciti insieme con dei nastrini, ma rimasti inediti fino alla sua morte, quando furono scoperchiati i bauli della sua camera, nella quale aveva deciso di autoesiliarsi per gli ultimi vent’anni di vita. L’apparente innocenza della serie tv, Dickinson, riaccende – forse inconsapevolmente – il dibattito sul concetto di autore, riesumandolo da quella metaforica morte, annunciata da Roland Barthes nel 1968. Il semiologo francese, infatti, contestò in tutta la sua produzione saggistica l’idea di un’incidenza del soggetto biografico nell’analisi critica di un testo letterario, sostenendo così la necessità di sciogliere il binomio scrittore-opera. Quella morbosa attenzione alla vita dello scrittore che continua a essere incoraggiata dalle logiche di mercato e da un certo voyeurismo. Non ultima, la sterile corsa allo smascheramento del caso Ferrante, che ha infiammato recentemente giornalisti e critici, per la quale si è sentita la necessità di ricorrere a mezzi leciti e non, al fine di dare un volto all’omonima febbre.

Emily Dickinson non è mai stata libera. Sam Bowles, suo primo editore, la indispettì pubblicando anonimamente cinque delle sue poesie su un giornale di Springfield, intervenendo con modifiche redazionali e titoli banali o fuorvianti, che avrebbero dovuto arricchire una sezione di “delizie poetiche”, destinate a quel genere di donna-angelo del focolare domestico che conoscesse i suoi doveri coniugali. Per molto tempo, la critica imperante, esclusivamente maschile, ha difatti relegato i suoi versi al trito sentimentalismo di uno stereotipo ottocentesco: nubile, eccentrica, vestita esclusivamente di bianco e separata dalla comunità. Un dagherrotipo del 1847, che è stato a lungo l’unica immagine di Emily Dickinson circolante, rappresenta l’emblema di una poetessa bistrattata dalla stessa sorella, Lavinia, che arrivò a ingaggiare un artista per addolcire la spigolosità delle sue fattezze e restituirle un ritratto più conforme all’estetica del tempo. Questo nuovo teen drama in costume nasce sotto una buona stella. Osannata dalla critica americana (il New York Times ne tesse gli elogi per l’audace rappresentazione di una sessualità fluida, il New Yorker ne parla come di una «curiosa creatura»), Dickinson compone un ritratto dell’artista da giovane, anzi lo riscrive, perché non aderente alla realtà dei fatti, sovrapponendolo a un’antologia di versi scelti. Lo fa talvolta a tinte surreali con voluti anacronismi, talvolta in un’estetica camp con spinte da soap-opera. Viene allora da chiedersi: qual è l’urgenza intellettuale di rileggere la vita di una donna – sebbene raffrontata alla sua eredità poetica – se non quella di cedere alla tentazione di spiare dal buco della serratura?

La sua impenetrabilità ha arricchito la “leggenda Dickinson” di fascino, ma in una lettera indirizzata al suo mentore T. W. Higginson è la stessa poetessa a metterci in guardia dall’ingannevole tentativo di ricercarla tra le pagine: «Quando parlo di me come Soggetto della Poesia – non ho in mente – me – ma una persona immaginaria». Per quanto Dickinson si sforzi di delineare gli aspetti più deflagranti della sua personalità, nei suoi scambi epistolari, Emily scriveva di sé come di una «ragazza all’antica», e occasionalmente desiderava addirittura conformarsi al modello di femminilità degli anni 20 che aveva educato sua madre. L’unico criterio contro il quale si ribellava era la tradizione puritana e maschilista del New England che prevedeva che una donna non potesse scrivere nulla di più alto di una lettera. La poesia era la passione pericolosa per la quale militava. I suoi versi spaccarono la coesione familiare per intere generazioni, allo scopo di accaparrarsi il possesso dei diritti delle sue opere e di decidere a tavolino la leggenda da trasmettere al pubblico.

Bisognava anzitutto tacere la sua epilessia (Lyndall Gordon, biografa di Emily Dickinson, ritrova dopo anni delle prescrizioni mediche, feticci per appassionati) perché contraria per una donna perbene ai dettami della pudicizia e della compostezza, ma soprattutto occorreva revisionare l’irregolarità di tutto quel materiale letterario per renderlo spendibile al mercato editoriale. In primis, andava espunta la singolare punteggiatura, soppressi quei trattini così esplosivi e così cari a Dickinson, la cui validità è ancora oggi argomento di discussione, se considerarli pause ritmiche oppure possibilità interpretative del lettore; toccava manipolare il lessico più sovversivo delle immagini vulcaniche e oscurare la strana natura di una scrittura difforme rispetto ai canoni della già non ben vista “letteratura tipicamente femminile”.  Risulta quindi oscuro cosa di questo nuovo prodotto audiovisivo lo renda diverso dai numerosi tentativi di far prevalere la propria visione e interpretazione non delle sue opere, ma della vita stessa dell’autrice, destinata ad essere distorta. Una vita fuggente, quella di Emily Dickinson, che decide di chiudere la porta della camera da letto dietro di sé e di lasciare entrare solo pochi eletti. Forse sarebbe più onesto se accettassimo il già ingrato compito di lettori postumi, piuttosto che continuare a guardare il dito e mai la luna.