Cultura
La forza di dire “sono io”: a Pasqua ritroviamo l’autenticità

Nel racconti evangelici sugli eventi pasquali – soprattutto nel vangelo secondo Giovanni – vi è un momento capace di parlare a tutti, credenti e non credenti, perché tocca una fibra profonda dell’esistenza umana. È un passaggio essenziale, asciutto, eppure denso come un lampo che squarcia il buio. Quando gli si avvicinano per arrestarlo, Gesù risponde semplicemente: “Sono io” (ego sum). Non si nasconde e non cerca scappatoie ma, anzi, fa un passo avanti esponendosi e assumendosi fino in fondo la responsabilità della propria identità e della propria missione. Possiamo dire che quel suo palesarsi è un gesto che va ben oltre la dimensione religiosa: è un atto di radicale autenticità.
Negli stessi istanti si consuma una scena speculare: Pietro, uno dei suoi compagni più vicini, riconosciuto da chi lo circonda, reagisce con parole opposte: “Non lo conosco” (non sum). È il terrore ad imporsi, il desiderio di salvarsi a prevalere sulla coerenza annullando in un attimo tutto ciò che aveva affermato e in cui sembrava credere. Tra queste due frasi—“Sono io” e “Non sono io”—si apre un abisso che non è soltanto teologico ma esistenziale, umano e profondamente attuale.
Quante volte anche noi, nella nostra quotidianità, ci troviamo in bilico tra questi due estremi? Quante volte, nel lavoro, nelle relazioni, nella sfera pubblica, esprimiamo opinioni con forza, dichiariamo valori, prendiamo posizioni—salvo poi, di fronte al rischio, defilarci, tacere, o addirittura smentire con i fatti ciò che avevamo affermato?
Viviamo in un tempo che ci chiede esposizione costante, prese di posizione nette e visibilità a ogni costo. E tuttavia, nel frastuono di parole e immagini che ci circonda, si rischia di scambiare l’assertività per ostentazione, la coerenza per compiacenza. Dire oggi “sono io” non equivale a imporsi sugli altri, ma ad assumersi la responsabilità di ciò che si è. Significa esporsi per ciò che si crede, senza maschere, senza strategie e senza retorica.
Dare seguito alle proprie dichiarazioni sembra semplice eppure oggi sa di profondamente rivoluzionario poiché implica accettare la propria vulnerabilità ammettendo anche la possibilità di fallire. Come Pietro siamo esseri fragili e tuttavia capaci—ogni tanto—di tornare a noi stessi, di ritrovare un filo di verità, di ripartire magari con slancio ritrovato. Come scriveva Albert Camus, “ciò che dà senso alla vita, lo dà anche alla morte”. E forse è proprio nel momento in cui scegliamo di essere autentici, decidendo chi siamo davanti a ciò che conta davvero, che si gioca il significato più profondo del nostro agire. Anche per chi non condivide la fede cristiana, il tempo pasquale può rappresentare l’occasione per un esercizio laico di interrogarsi su quanto siamo fedeli alla nostra parola per dare peso alle parole così svendute nell’era delle fake news e delle post verità.
Essere coerenti non è mai scontato ma è, forse, l’unico modo per restare autenticamente umani in un’epoca che spesso ci invita più a recitare ruoli che a vivere vite vere. Invece parafrasando Italo Calvino, Pasqua è un passaggio dal nichilismo ad una postura esistenziale vissuta con coscienza e partecipazione sapendo che ogni gesto è un atto che ci definisce”. E allora sì, forse oggi come allora, la sfida più urgente è proprio quella di trovare il coraggio, ogni tanto, di dire con semplicità e fermezza—davanti agli altri, ma prima ancora davanti a noi stessi—“Sono io”.
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