Quando nasce lo scontro tra le due potenze nucleari
La guerra tra India e Pakistan per l’oro blu del Kashmir: la Cina guarda e… gode
In Kashmir, nelle postazioni militari sul ghiacciaio del Siachen, si combatte a quote che vanno dai 3.500 ai 6.700 metri. Ed è lì nocciolo del problema, nella regione che custodisce una delle maggiori risorse idriche di tutta l’Asia

A Wagah-Attari, nel cuore del Kashmir, lungo il confine indo-pakistano, dal 1959 si svolge tutti i giorni una curiosa cerimonia. Una guardia di frontiera dell’esercito indiano accenna a vistose mosse di marcia militare, che sembrano dei passi di danza, accompagnati da smorfie e occhiatacce, lanciate a una controparte pakistana, anch’essa impegnata nello stesso balletto.
Lo spettacolo richiama una partecipazione di pubblico importante. Sia dal vivo sia sui social. Può bastare questa mise en scène per capire la ripresa del conflitto indo-pakistano negli ultimi giorni. A due settimane dall’attacco terroristico a Pahalgam, nel Kashmir indiano, che ha visto la morte di 26 turisti, il governo di Delhi ha lanciato l’Operazione Sindoor, colpendo nove siti militari, a suo dire, terroristici, in Pakistan. Considerato come un atto di guerra, il Pakistan ha reagito dichiarando di aver abbattuto alcuni jet indiani. Bollettino parziale dello scontro: 46 morti e 89 feriti.
La guerra dimenticata dall’Occidente
Quella tra India e Pakistan è la classica guerra dimenticata dall’Occidente, troppo distratto – forse per buone ragioni – da altre crisi. E proprio per questo, quando si hanno dei ritorni di fiamma degli scontri, che vanno oltre il cinema di Wagah-Attari, si trova spiazzato nel trovarne una soluzione. Gli inviti dei governi europei, quanto anche di Mosca, Teheran e Ankara, alle due parti di confrontarsi per evitare l’escalation appaiono come mosse pro forma, prive però della conoscenza di una storia che risale al pieno colonialismo.
Il conflitto del Kashmir
Il conflitto in Kashmir scoppia nel 1947. Un anno prima di quello palestinese. È la dimostrazione del fallimento del progetto di Nehru e Jinnah. I padri della patria rispettivamente indiano e pakistano, che non vollero seguire il monito di Gandhi e degli inglesi che smobilitavano allora. Ovvero che imporre una deportazione dei musulmani dal cuore della penisola indiana a quello che è oggi il Pakistan avrebbe comportato morti e livori etnico-religiosi mai sopiti.
È una guerra tra due potenze nucleari. La cui corsa all’atomica, terminata con successo dall’India nel 1974 e nel 1998 dal Pakistan, è sempre stata schiettamente strategica e speculare. Uno scontro dalle dimensioni bibliche, che coinvolge una popolazione complessiva di quasi due miliardi di persone. Una rivalità sostenuta da un antagonismo confessionale millenario. I musulmani, che logicamente in Pakistan sono la maggioranza assoluta della popolazione, in India sono il 15%.
Una quota di elettori e interessi economici che la più grande democrazia del mondo, il cui cuore pulsa fede indu, non può trascurare. Ma la guerra indo-pakistana è anche territoriale. In Kashmir, nelle postazioni militari sul ghiacciaio del Siachen, si combatte a quote che vanno dai 3.500 ai 6.700 metri. Ed è lì nocciolo del problema. Fin dai tempi dell’Impero britannico, il Kashmir reclama una sua indipendenza. Per lingua, etnia e Islam moderato, la sua popolazione ha sempre cercato di mantenere le distanze da entrambi i fronti. L’autodeterminazione non gli è stata concessa. Per forza di cose.
L’oro blu del Kashmir
La regione custodisce una delle maggiori risorse idriche di tutta l’Asia meridionale. I suoi fiumi, tra cui l’Indo, forniscono l’80% di acqua dolce al Pakistan. Tuttavia, è l’India, con il suo sistema di dighe, a controllare la distribuzione di questo “oro blu”, indispensabile per irrigare due potenze agricole e illuminare le megalopoli del subcontinente. Del resto, la causa kashmira è da sempre nelle mani di gruppi indipendentisti con una forte connotazione islamica, classificati da Delhi come terroristi. Giustamente, in alcuni casi. In passato, i Mujahideen Ghazwat-ul-Hind sono stati indicati come vicini ad al-Qaeda.
Insomma, questa nuova pagina di “guerra mondiale a pezzi” – riprendere papa Bergoglio è quanto mai adeguato in questi giorni – si apre in un angolo remoto del mondo dove solo una terza potenza potrebbe fare da pompiere. Non lo fa perché le conviene avere le sue concorrenti dirette sempre impegnate a scambiarsi fumate di guerra. Questo terzo attore del tutto indolente è la Cina.
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