Siamo contrari alla cosiddetta “Plastic tax”. Dobbiamo affrontare un cambio di paradigma ambientale che va agevolato non con divieti e limitazioni, ma con incentivi e facilitazioni. La tassa sulla plastica non ci piaceva nella versione presentata dal governo tre settimane fa e non ci piace in quella attuale. Non ci convincono, altresì, i diversi miglioramenti che tanti esponenti politici ipotizzano sul futuro provvedimento pronto al passaggio nei due rami del Parlamento. Siamo in presenza, in realtà, di uno dei tanti balzelli che non risponde a una concreta logica politica ambientale e che produrrà disagi a consumatori e produttori.

Insomma, una legge che non regge. Come sindacato abbiamo sempre creduto nella prospettiva dell’economia circolare e nel presupposto di questa politica basato sulla sostenibilità ambientale, ma nel caso in questione si va in direzione contraria determinando un vero e proprio caos nel settore. Così si mandano in confusione aziende e utenti, senza influire minimamente sulla svolta indispensabile per influire sulle propensioni al consumo delle plastiche. Un capolavoro all’incontrario! Per paradosso, se voleva essere una tassa di scopo non riuscirà a cogliere l’obiettivo della riduzione di prodotti inquinanti; se voleva essere una tassa per fare cassa garantirà poco, o niente. Infatti, parliamo di entrate nell’ordine di un miliardo nel 2020, fino a poco più di due miliardi negli anni successivi.  In ogni caso le aziende non si accolleranno i costi aggiuntivi della nuova imposizione che si scaricheranno sui consumatori. Proprio gli utenti rischiano di pagare in più nel prossimo biennio per questo provvedimento pseudo-ambientale: nella prima versione del testo avevamo calcolato almeno cento euro a famiglia; nell’ultima stesura, sempre secondo le nostre proiezioni, i costi scenderebbero a ottanta euro per nucleo.

Le modifiche che si ipotizzano in sede parlamentare cambierebbero poco o niente del prelievo forzoso nelle tasche dei consumatori. Ed altrettanto poco realizzerebbe il meccanismo a favore degli investimenti delle imprese nell’acquisto di macchinari per realizzare prodotti riciclabili. E sempre poco si otterrebbe dall’esclusione dell’imposta dei prodotti con percentuali di materia prima riciclata e dei manufatti monouso. Infine, risulta solo come mera propaganda l’annuncio governativo di rivedere il valore dell’imposta, oggi fissato in un euro al chilo. La ricaduta sui consumi non si attenuerà di certo in un’economia che fatica a crescere.

Questa tassa anziché aiutare la crescita e le riconversioni, contribuirà a determinare il soffocamento del settore, 2mila aziende con oltre 50mila dipendenti, e un’ingente perdita di posti di lavoro, che con questi presupposti sembra essere inevitabile. Fanno sorridere le dichiarazioni di diversi componenti dell’esecutivo quando affermano la tassa guarda alle generazioni future ed è applicata in altri Paesi. È vero, molti Stati membri dell’Unione europea hanno introdotto nuove tasse, in particolare dei sacchetti. In linea generale, è dunque possibile dire che questa tassa non sarebbe una novità esclusivamente italiana. Ma in questi altri Paesi vengono applicate specifiche politiche industriali. Tutti in Italia parlano del “Green new deal”, ma al riguardo manca un vero e proprio patto tra parti sociali e istituzioni. La vicenda della tassa sulla plastica dimostra che ancora una volta non si guarda allo sviluppo dell’economia circolare e industriale in chiave moderna, perché si introducono divieti e balzelli, anziché puntare su modelli di produzione e di consumo efficienti e razionali. Dispiace constatare che, per il governo in carica da pochi mesi, la questione della tassa sulla plastica si sia dimostrata un’occasione mancata. Chissà se avrà tempo per rimediare.

Paolo Pirani

Autore