Alla vigilia dell’elezione del nuovo sindaco di Napoli, il quotidiano Il Mattino ha intervistato il procuratore generale della Corte di appello Luigi Riello, la più alta carica requirente del distretto e il virgolettato, nella prima pagina di cronaca, riporta questa: «La città è una polveriera, va bonificata, maggiore severità con i minori». In precedenza il prefetto Marco Valentini, che a breve lascerà Napoli, aveva affermato che la nostra è la metropoli più armata d’Europa. L’analisi del procuratore Riello può essere condivisa solo in parte. Ha ragione quando sostiene che è necessario insistere sulla formazione, sulla trasmissione di valori positivi, su investimenti sul piano della cultura e dell’educazione.

Allo stesso tempo, però, ritiene che bisogna ripristinare la deterrenza della pena, che deve essere effettiva e rigorosa specie nei confronti delle giovani generazioni, e critica gli istituti del perdono giudiziale e della messa alla prova concessi in maniera generosa. Nel suo pensiero c’è una contraddizione che è frutto della debolezza e dell’inerzia dello Stato non nel punire, ma nel prevenire. A Napoli vi sono interi quartieri abbandonati, vere e proprie zone franche dove l’assenza delle istituzioni si tocca con mano, dove non vi sono regole da rispettare perché le regole non vengono insegnate, dove trasgredire è la normalità perché non vi sono coloro che indicano la strada maestra e i giovani non conoscono alternative alla via del crimine, sia esso di strada o più “sofisticato”. A ciò si aggiunge la rassegnazione della classe dirigente che non provvede a presidiare il territorio e avalla condotte illegali minime, prodromiche a quelle più allarmanti.

Alcuni anni fa, nel recarmi all’inaugurazione di una fondazione privata nei Quartieri Spagnoli dove era prevista la presenza dell’allora presidente del Senato, notai, a un incrocio, un vigile e, allo stesso tempo, l’avvicinarsi di un ciclomotore con una signora al volante e due bambini abbracciati a lei sul sedile, tutti rigorosamente senza casco. Non fu il vigile a fermare il motorino, pur avendolo visto, ma fu la signora che frenò e chiese, meravigliata, cosa lui facesse lì. Questi rispose che vi erano delle autorità e le disse di allontanarsi. Un “siparietto”, tanto divertente quanto amaro, che rende bene il totale abbandono di quei posti, dove l’illecito è pane quotidiano. I giovani nati e cresciuti in questi luoghi, hanno la strada segnata che è quella di essere assoldati dalle organizzazioni criminali, ovvero quella dei reati predatori. Come dice lo stesso procuratore Riello, sono vittime di un sistema che li ha abbandonati. Ma se questo è vero, perché lo Stato ingrato dovrebbe poi, dopo averli arrestati e/o condannati, metterli in carcere, con le notorie e spesso del tutto ingiustificate sofferenze? La critica al perdono giudiziale e alla messa alla prova non trova alcun conforto nelle statistiche che, invece, confermano l’assoluta importanza di tali istituti. Il secondo, tra l’altro, proprio per la sua rilevanza rispetto alla diminuzione della recidiva, è stato esteso ai maggiorenni nel 2014.

Tutto ciò che è alternativo al carcere va promosso. Si tratta pur sempre di un percorso che vincola la libertà dell’individuo a cui lo Stato offre la possibilità di responsabilizzarsi e riscattarsi. Questo vale per tutti e a maggior ragione per i minorenni. La certezza della pena non va confusa con la condanna da scontare in regime detentivo, in quanto nel concetto di “pene”, così come indicato dall’articolo 27 della Costituzione, vanno ricomprese le misure alternative al carcere. Lo stesso istituto della messa alla prova, che sospende il giudizio, in attesa del suo esito positivo, rappresenta un importante incentivo per un sostanziale cambiamento. L’invocata maggiore severità con i minori – ai quali certamente non può essere addebitato la circolazione in città di un numero elevato di armi – non è la strada giusta da seguire. Avviciniamoli, questi ragazzi, e mettiamoli alla prova subito, prima che il loro destino sia irrecuperabile.