Malattie e aspettative di vita non sono distribuite in modo equo nella popolazione a causa delle diverse condizioni sociali.
Le disuguaglianze di salute iniziano da bambini ben prima dell’età scolare: lo sviluppo neurale e le attività cerebrali, infatti, sono in relazione con fattori quali il reddito familiare, il livello di istruzione, le competenze e gli stili genitoriali. Opportuni interventi socio-sanitari e educativi possono ridurre alcuni di questi svantaggi ma il mancato raggiungimento del pieno potenziale di sviluppo neuro-cognitivo nei primi anni di età avrà invece conseguenze per tutto l’arco della vita, con costi individuali e sociali molto elevati. E lo sviluppo cerebrale è anche questione di parole.

I bambini che crescono in famiglie che fanno uso quotidiano di uno scarso numero di vocaboli avranno minori competenze cognitive rispetto ai bambini che, al contrario, crescono in famiglie in cui si dialoga di più e il lessico è più ricco e articolato. Tanto è importante la parola che addirittura nel Libro della Genesi al Dio spetta la creazione del mondo mentre è l’Uomo che gli dà un significato attraverso l’uso dei nomi. Le parole sono lo strumento con cui sperimentiamo le nostre emozioni e il veicolo per condividerle all’esterno e raccontarci. O perché il vocabolario è ridotto per via dell’ambiente nel quale si cresce, o per la scarsa abitudine al dialogo o per il prevalere della comunicazione visiva che arrugginisce le abilità narrative, il risultato non cambia: in assenza di parole per verbalizzarle, le emozioni non defluiscono e rimangono compresse dentro di noi.

Un magma informe nelle profondità di un vulcano che prima o poi potrebbe eruttare importanti acting out. Esprimere i propri vissuti emotivi attraverso l’azione piuttosto che con le parole ci espone a essere poco riflessivi e a non considerare i possibili effetti negativi delle nostre azioni. Mettere in parole le emozioni non è semplice emissione di fiato. Non è questione di contare le parole ma fare in modo che le parole contino nell’ambito della relazione che per mezzo di esse si costruisce. Usare le parole per scrivere un manifesto atto a colpire un partner che, a sua volta, ci ha ferito non serve a elaborare il dolore nel rispetto intimo dell’altro ma lo trasforma in pettegolezzo.
Perfetti sconosciuti ridotti a spettatori pro tempore: tutti a parlare superficialmente di tutti evitando così di parlare in modo profondo di loro stessi. Parlare delle nostre emozioni con le persone più care e vicine rinforza la gioia e ci aiuta a elaborare il dolore e a tollerarlo meglio. La spettacolarizzazione lascia invece il dolore tale e quale a come lo trova e pronto anche a colpire con cattiveria. Epperò, il problema degli spettatori è un problema importante se già Lucrezio aveva individuato quanto sia soave essere testimoni di un naufragio standosene sicuri sulla riva e, quindi, certi di essere esenti da quella sventura.

Il dialogo, quello vero, prevede sempre che chi presta orecchio sia realmente interessato ad ascoltare e condividere, non semplicemente disponibile a sentire o a controbattere. L’educazione dei sentimenti passa dalle parole che devono rappresentare elementi vivi della quotidianità e non vocaboli morti da risuscitare con l’aiuto di specialisti. Per la tutela della nostra salute mentale è bene usare tutte le parole a nostra disposizione e impararne costantemente di nuove. Per la tutela della salute mentale dell’altro è anche bene sapere usare le parole nel modo più giusto e nel momento più opportuno. La regola dei 5 secondi è sempre un buon punto di partenza. Far notare una cosa che non va bene solo se l’altro potrà porvi rimedio entro 5 secondi: hai qualcosa tra i denti è ben diverso dal dire ti trovo ingrassato. Le parole ci consentono di rimanere connessi alle vite degli altri e viceversa. Senza parole, oltre a soffrire di più, siamo tutti più soli. Il racconto della vita non è un tweet.