Gli imprenditori scelsero di vendere tutto, rinunciando al futuro della comunicazione
La storia della Pay Tv italiana svenduta a Murdoch perché “nessuno pagherà mai un abbonamento”. L’alternativa fu Telemontecarlo…
La sfiducia generale, la competizione tra Stream e Tele+ e l’ascesa di Sky con Murdoch. La storia della televisione a pagamento nel nostro Paese genera ancora oggi rimpianti

«Nessuno in Italia pagherà mai un abbonamento per guardare la televisione». Questo era il tormentone che, agli inizi degli anni 2000, risuonava nei corridoi delle grandi aziende italiane legate al mondo dell’audiovisivo. Era una convinzione radicata, quasi un dogma, condivisa da dirigenti, tecnici e politici. Un pensiero figlio di un’epoca in cui il modello dominante di business televisivo si fondava su due colonne ben salde: la raccolta pubblicitaria, che sosteneva le reti private, e il pagamento del canone, che garantiva le entrate del servizio pubblico. L’idea che si potesse pagare per accedere a contenuti televisivi appariva assurda, se non addirittura offensiva per molti.
Stream, Tele+ e i limiti iniziali
Eppure, fin dal 1993, qualcosa si stava muovendo. La Stet, holding pubblica delle telecomunicazioni e parte dell’Iri, aveva deciso di guardare oltre l’orizzonte tradizionale, fondando Stream, una nuova società con una missione chiara: esplorare le potenzialità del nascente mercato della Pay Tv in Italia. In quel periodo, il concetto stesso di televisione a pagamento era agli albori, ma già si intravedevano le immense potenzialità di un settore destinato a rivoluzionare l’intrattenimento.
Stream, a differenza della concorrente Tele+, che puntava tutto sulla trasmissione satellitare, nacque con l’idea di sfruttare le reti via cavo già esistenti, in particolare nelle grandi città come Roma, Milano e Torino. L’obiettivo era di fornire contenuti a pagamento attraverso la rete cablata, seguendo un modello più simile a quello americano. Ma se l’idea era moderna, la realtà tecnologica italiana non era altrettanto pronta: la diffusione del cavo era limitata e l’infrastruttura non poteva sostenere una rapida espansione del servizio.
Nel 1997, a seguito delle ristrutturazioni interne all’Iri e della privatizzazione delle grandi holding statali, Stet fu incorporata in Telecom Italia, che si ritrovò così a gestire anche Stream. Questo passaggio segnò un punto di svolta: la nuova proprietà iniziò a orientare la strategia dell’azienda verso il satellite, seguendo l’esempio di Tele+, la quale aveva già dimostrato che, almeno in Italia, la trasmissione via satellite era più efficace del cavo. Così, nel 1999, Stream iniziò ad abbandonare progressivamente la tecnologia via cavo, spostando risorse e contenuti sulla piattaforma satellitare. Da quel momento in poi, la competizione tra Stream e Tele+ entrò nel vivo. Entrambe le emittenti cominciarono a strutturare palinsesti ricchi e tematici, suddivisi tra cinema, sport, intrattenimento, documentari e contenuti per bambini.
Telecom apre a Murdoch e poi cede tutto
Il terreno di scontro più accesso fu, ovviamente, il calcio: la vera gallina dalle uova d’oro della televisione italiana. I diritti per le partite di Serie A, della Champions League e delle competizioni internazionali erano al centro di vere e proprie aste milionarie. La guerra tra Stream e Tele+ per accaparrarsi i diritti esclusivi contribuì a far lievitare i costi, ma anche ad aumentare l’appeal della Pay Tv, che finalmente iniziava ad attrarre una fetta crescente di pubblico.
Nel 1999, però, arrivò una nuova svolta: Telecom Italia decise di cedere una quota di maggioranza di Stream a News corporation, il colosso mediatico di Rupert Murdoch. L’ingresso di un attore globale cambiò radicalmente gli equilibri del mercato. Murdoch, già protagonista in altri paesi con la sua esperienza nelle Pay Tv, vide nel mercato italiano un terreno fertile, nonostante le resistenze culturali e la diffidenza iniziale degli operatori locali. In poco tempo, Stream beneficiò di contenuti internazionali, strategie commerciali aggressive e nuove tecnologie. Ma il sostegno politico e industriale in Italia non era sufficiente. In quel periodo, il gruppo dirigente di Telecom – che nel frattempo aveva visto il passaggio di proprietà a Roberto Colaninno e la sua Olivetti, attraverso una delle operazioni finanziarie più discusse della storia economica italiana – scelse di abbandonare del tutto il progetto Stream.
E non solo: qualche anno dopo, nel 2003, proprio mentre l’Unione Europea dava il via libera alla fusione tra Stream e Tele+, Colaninno e soci decisero di cedere anche la quota di minoranza, permettendo a Murdoch di assumere il controllo totale del nuovo soggetto nato dalla fusione: Sky Italia. Il risultato? Un colosso televisivo, capace in pochi anni di superare i quattro milioni di abbonati, rivoluzionando completamente il mercato dell’audiovisivo italiano, al punto da diventare un attore centrale anche nel panorama culturale e politico. Sky Italia portò nel Belpaese un modello editoriale all’avanguardia, una programmazione di altissimo livello, la disponibilità del catalogo cinematografico della 20th Century Fox, eventi sportivi in esclusiva da tutto il mondo e format innovativi importati da altri mercati. Ma l’Italia, intesa come sistema economico e politico, decise di sfilarsi.
Mentre altri paesi europei stringevano accordi con i grandi gruppi internazionali per rafforzare le proprie industrie culturali, noi scegliemmo di vendere tutto. I cosiddetti “capitani coraggiosi”, celebrati da una certa narrazione come eroi dell’imprenditoria italiana, rinunciarono a partecipare a una delle più importanti rivoluzioni mediali del nostro tempo.
Colaninno, con il benestare del governo guidato da Massimo D’Alema, rinunciò a un’alleanza strategica con il più grande editore del mondo. Una mossa che oggi appare ancora più miope, considerando cosa avrebbe significato, in termini di contenuti e know-how, mantenere un piede in Sky. Murdoch non era solo un investitore, ma un partner con una visione globale, una rete di redazioni in tutto il mondo, risorse illimitate e un ecosistema di media che andava dalla carta stampata alla produzione audiovisiva. Invece, si preferì cedere tutto.
L’alternativa fu acquistare Telemontecarlo
La scelta alternativa? Acquistare Telemontecarlo, un’emittente marginale, con problemi strutturali e ben lontana dalle potenzialità di Sky. Oggi, a distanza di più di vent’anni, quella decisione appare ancora più clamorosa nella sua cecità. In un momento storico in cui i contenuti sono il vero valore dell’economia digitale, l’Italia ha rinunciato a essere protagonista nel settore della televisione a pagamento, proprio mentre questo si avviava a diventare uno dei mercati più ricchi e innovativi. Sky Italia, nelle mani di Murdoch, ha saputo cavalcare la trasformazione, mentre l’Italia istituzionale si è ritirata, consegnando a un attore straniero un settore strategico.
Questa è la storia di un’occasione mancata, l’ennesima nella storia economica del nostro Paese. Una storia fatta di pregiudizi, miopia e paure. Una storia che parla di innovazione rifiutata, di alleanze spezzate e di decisioni incomprensibili. Una storia in cui la Pay Tv era italiana, ma nessuno ci credeva.
E oggi, nel pieno dell’era dello streaming globale, ci rendiamo conto di quanto quella miopia abbia inciso sul nostro presente. E su ciò che avremmo potuto essere.
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