Politologi e sociologi farebbero bene a non trascurare le trasformazioni che da almeno un decennio (anche di più) stanno snaturando e destrutturando la concezione tradizionale del gioco del calcio. È un fenomeno che riguarda molto da vicino la politica e quella che per anni è stata definita la crisi delle ideologie. Un vento carico di integralismo, con tutti gli effetti collaterali tipici del dogmatismo. Fatta eccezione per l’ambientalismo, e ultimamente per i risvolti di quella che viene definita la questione mediorientale, è molto raro imbattersi in una discussione accalorata tra i giovani su temi della vita politica. Men che mai di quella italiana. Siamo ben oltre la stagione del disimpegno. Siamo nel disincanto prolungato. Nel disinteresse conclamato.

Nel calcio, invece, da tempo avviene l’esatto contrario. Il pallone, la partita, la preparazione e lo svolgimento dell’incontro hanno assunto una dimensione sacrale. Il nuovo Che Guevara oggi non ha i capelli. È orgogliosamente calvo. È catalano. E si chiama Pep Guardiola. Fate bene attenzione ad approcciarvi con superficialità in un consesso di devoti di Guardiola. Quell’ideologia che più generazioni hanno ormai dimenticato a livello politico, quasi espulso dal proprio bagaglio genetico, è prepotentemente tornata sottoforma di dottrina calcistica. Non ci si accapiglia più sul processo di imborghesimento del Pci (questa è preistoria) ma nemmeno sull’eredità politica di Berlusconi, men che meno sui libri che rievocano Acca Larenzia. Se doveste imbattervi in una discussione accalorata, state certi che staranno parlando dei nuovi comandamenti del calcio.

Osservate anche le interviste degli allenatori seguaci del guardiolismo. Sempre più frequentemente parlano di valori. Di princìpi. Princìpi del calcio. Fino alla frase che racchiude un universo mentale: il mio calcio. Che è un manifesto politico. È, di fatto, il programma sempre reclamato da quegli elettori che intendono andare informati alle urne.
Il calcio ideologizzato non viene praticato per ottenere il volgare risultato della vittoria, che in fondo è un residuo borghese. Ma per riprodurre sul terreno di gioco l’utopia dello schema perfetto. Sempre con un tocco, massimo due, rasoterra e con movimenti di tutta la squadra. L’eskimo di questa generazione di calciofili ideologizzati è la costruzione dal basso. Un feticcio irrinunciabile. È lo spartiacque tra chi ha convintamente aderito al progetto rivoluzionario del gioco del calcio e chi invece ancora brama per quella forma di viltà che è la vittoria, magari attraverso l’oltraggioso atto del difendersi. Oggi si parla di giocare speculando sull’avversario (nel ciclismo più o meno sarebbe la figura – nobilissima – del succhiaruote). O, ancora: l’anticalcio. Formula anche etimologicamente meravigliosa perché richiama l’anticristo. Satana. La costruzione dal basso è quella ripresa del gioco che parte generalmente dal portiere non col lancio lungo a centrocampo, tipico delle partite di qualche decennio fa. Ma palla a terra. Passaggio al difensore. O a un centrocampista che si abbassa. E poi l’azione, nel migliore dei casi, segue un tracciato simile al giochino de La Settimana enigmistica “unisci i puntini”.

Anche se ti trovi in difficoltà, con un avversario che ti sta addosso, non devi mai, mai, lanciare lungo né tantomeno buttare il pallone in fallo laterale. Equivarrebbe a una resa ideologica. A un tradimento culturale. Poco meno di un decennio fa, a Napoli, in piena era Sarri, la squadra di casa affrontò il Real Madrid allora allenato da Zidane che aveva in squadra Benzema, Cristiano Ronaldo, Sergio Ramos. In entrambe le partite, andata e ritorno, andò in vantaggio il Napoli e tutt’e due le volte vinse il Madrid per 3-1. Sapete cosa disse Sarri in conferenza stampa? “Abbiamo costretto il Real Madrid a buttare il pallone in fallo laterale”. Come se fosse un’onta, non una banale pratica utilizzata quando si è in temporanea difficoltà. Era un linguaggio per iniziati. Che richiedeva un’adesione ideologica. Come a dire: “Sì, hanno vinto, perché hanno i calciatori più forti ma sul terreno utopistico non hanno tenuto”.

Attorno al calcio, soprattutto tra i più giovani (anche se non solo tra i più giovani), il settarismo sta crescendo sempre di più. Ormai è un proliferare di riviste, di pagine Facebook, di account X che vivisezionano la partita di calcio. E la analizzano con lo stesso rigore con cui si leggono le analisi del sangue. Voce per voce. Al posto di colesterolo, trigliceridi, glicemia, transaminasi, ci sono l’ormai famigerato possesso palla (totale e nella metà campo avversaria), gli expected goals (una formula che analizza quanti gol avresti dovuto segnare con le occasioni che hai creato), il baricentro medio della squadra (se hai giocato più alto o meno alto). I nuovi guevaristi, come un medico specializzato, leggono i dati e immediatamente concludono se quella determinata squadra appartiene alla setta dei contemporanei o se pratica un calcio obsoleto che prima o poi sarà spazzato via dalla storia. Tutto è condensato nei numeri. I numeri non mentono.

Naturalmente e, aggiungiamo qui, per fortuna, ci sono ancora dei resistenti. Allenatori, per lo più di una certa età (ma non solo), che incarnano la terza via che fu di Giddens. Oseremmo qui parlare di riformismo. Se non di darwinismo. Ossia adeguare il comportamento della propria squadra al mutare delle condizioni sul campo. Che poi, in teoria, è un principio dello sport nonché della vita. Qualcuno la chiamerebbe intelligenza. Se a tennis affronti un giocatore fortissimo di dritto e così così sul rovescio, se sei dotato di un quoziente intellettivo appena appena decente allora gli giocherai il minor numero di palle possibile sul diritto. È rarissimo imbattersi in un tennista che dica: “Non snaturo il mio tennis per l’avversario, anche a costo di perdere”. Sarebbe immobilizzato e portato nel più vicino ospedale specializzato per un Tso (Trattamento sanitario obbligatorio).

Nel calcio il capostipite della terza via è senza alcun dubbio Carlo Ancelotti, che appartiene alla categoria degli avversari più pericolosi che la storia ti possa proporre: i rinnegati. Coloro i quali sono cresciuti nella scuola dell’ideologia (Ancelotti ha giocato nel Milan di Sacchi e di Arrigo è stato vice in Nazionale) e poi, nel corso del tempo, messi di fronte alle contraddizioni della vita, hanno compreso che l’intelligenza, la capacità di adattamento e il buon senso portano più lontano dell’ideologia e dell’integralismo. Quando era sulle barricate (e allenava il Parma), disse no a Baggio. “Non c’è posto per lui nel mio 4-4-2”. Oggi, quando qualcuno glielo ricorda, ci ride su della grossa. Fu il nemico capitalista a ricondurlo sulla retta via. L’Avvocato Agnelli. Ancelotti allenava la Juventus e comprarono Zidane. Il problema non si pose nemmeno. Agnelli chiedeva solo di Zidane. Voleva informazioni solo su di lui. Come e dove farlo giocare spettava all’allenatore. Altrimenti che lo pagavano a fare? Fu la fortuna del signor Carlo. Lì cambiò la sua vita. E pose le basi per quel che oggi è l’unico allenatore che in panchina ha vinto quattro Champions League.

Che ha resistito con i presidenti più ingombranti che la storia del calcio ricordi: Silvio Berlusconi (otto anni con lui, record assoluto), Florentino Perez (è a quota cinque, ha superato Zidane come numero di partite). Se vuoi stare nelle grandi aziende, devi risolvere problemi. Altrimenti vai a casa.
Ancelotti è di bosco e di riviera. Le sue squadre sanno giocare palleggiando. Sanno uscire da dietro palla a terra ma neanche si pongono il problema qualora si presenti la necessità o il desiderio di lanciare lungo. Non c’è un solo modo di giocare a calcio. E se si trovano di fronte un avversario probabilmente più forte – come accaduto l’altra sera in Champions col Manchester City di Ernesto Che Guardiola – non hanno alcun problema a riesumare il caro vecchio catenaccio, peraltro simbolo della italica tradizione pallonara. “Era l’unico modo per riuscire a vincere”, ha detto con nonchalance. Ancelotti è uno cresciuto nella bassa emiliana, per andare in bagno bisognava uscire fuori e faceva freddo vero. Da bambino si arrabbiava quando arrivava il momento in cui il padre doveva restituire parte del raccolto al proprietario terriero. Ecco: uno così, di fronte all’ottusità ideologica, può solo mettersi a ridere. Nemmeno ci pensa alla bella morte. A uscire a testa alta. A proferire frasi come “il mio calcio”. Il calcio di Ancelotti non esiste. Così come non esiste l’ancelottismo. L’ancelottismo è porsi in maniera critica di fronte alle situazioni che si presentano. Ogni avversario e ogni partita richiedono un approccio e una preparazione diversi. Il bagaglio ideologico di Ancelotti sono l’intelligenza e la capacità di adattamento. Il darwinismo. O se volete, il riformismo.