Le condizioni in cui nasciamo, cresciamo, viviamo, lavoriamo e invecchiamo influenzano la nostra salute, il rischio di ammalarci e l’aspettativa di vita. L’iniqua, ed evitabile, variabilità di tali condizioni nei differenti gruppi sociali determina le disuguaglianze di salute. Essere donne non aiuta. È un fatto che il vantaggio femminile di salute di tipo biologico spesso finisce per essere annullato dallo svantaggio derivante dall’iniquo accesso delle donne a beni e opportunità. Paradosso di genere! Così le donne vivono più degli uomini ma nella terza età hanno una peggiore qualità di vita e salute a causa di una maggiore prevalenza di patologie invalidanti e un più precario stato psicologico. Le disuguaglianze di salute non sono soltanto questione di genere e biologia, ma dipendono anche dal sistema di relazioni tra uomini e donne e dai contesti culturali che lo creano e lo alimentano.

Non intervenire per evitare che una disuguaglianza evitabile arrechi un danno alla salute di un essere umano, e nel caso in questione a quella delle donne, è una forma di violenza. Sono maggiormente evidenti e fanno più spesso notizia le forme estreme di violenza fisica o sessuale contro le donne, tanto che si è indotti a considerarle una sorta di valore anomalo, un fenomeno cruento una tantum.
La violenza, invece, è un continuum. Inizia con credenze e pregiudizi, con l’incolpare le stesse vittime della violenza perché in minigonna o alticce, con le culture patriarcali, con la svalutazione di donne e bambini, con il body shaming e con la misoginia. Si “normalizza” attraverso l’accettazione di epiteti ridicoli, dell’esclusione sociale, dello stigma e della deumanizzazione di corpi nudi usati come vassoio per il sushi o ricoperti di cioccolato per ingentilire il buffet dei dolci. Si conclude con la fisicità dei palpeggiamenti, delle coercizioni sessuali, degli stupri e dei femminicidi. E l’idea di un continuum non significa affatto che alcune azioni siano più o meno gravi di altre: le esperienze soggettive non possono essere quantificate. È violento accettare che le donne lavoratrici abbiamo un aumentato rischio di infarto miocardico perché i figli maschi, per cultura, contribuiscono meno al lavoro domestico che ricade quindi sulle madri sovraccaricandole; è violenta la violenza fisica o sessuale sulle donne che, oltre ai drammatici e immediati danni fisici e psicologici, le espone al rischio di sviluppare una serie di disturbi secondari come depressione, ansia e attacchi di panico, disturbi dell’alimentazione, dipendenze, disturbi sessuali e ginecologici, malattie sessualmente trasmissibili, disturbi gastrointestinali e cardiovascolari.

La violenza sulle donne è una crisi di salute pubblica globale, una violazione dei diritti umani di vaste proporzioni che richiede un’importante e decisa risposta preventiva e una rinnovata attenzione e azione politica. Agli amministratori il compito di colmare il divario interregionale della presenza sul territorio di servizi consultoriali e di difenderne il principio di prossimità alla comunità: è anche da consultori familiari che passano l’empowerment della donna e il riconoscimento e il contrasto alle forme di violenza. E tutti siamo chiamati a scegliere: comportarci come Atena, alimentando modelli culturali che puniscono la meravigliosa e innocente Medusa colpevole solo di essere stata violata da Poseidone, o passare all’azione come Perseo, tagliando definitivamente la testa al mostro della violenza. I dati ISTAT del 2014 parlano chiaro al punto da rendere elevatissima la probabilità che in quel 31% di donne che hanno subito violenze fisiche o sessuali tra i 16 e i 70 anni ve ne possa essere qualcuna a noi prossima, come ben sanno i partner o gli ex partner responsabili del 13% di questi casi.

È il momento di agire perché il cambiamento nei risultati si ottiene col cambiamento della cultura. E a questo possiamo e, quindi, dobbiamo contribuire tutti in modo corale con azioni ferme, coraggiose e, a volte, anche scomode. Inutile cercare teorie per spiegarla diversamente: la violenza è un comportamento intenzionale. È un atto di guerra volto a colpire e umiliare. Non è un raptus né una perdita di controllo. C’è urgente bisogno di recuperare una cultura gentile che si ri-fondi sul rispetto e che ri-educhi i sentimenti interrompendo la trasmissione socio-culturale e intergenerazionale della violenza e dei traumi a essa connessi. Non è più tempo per il Volgiti ’n dietro e tien lo viso chiuso; / ché se ’l Gorgón si mostra e tu ’l vedessi, / nulla sarebbe di tornar mai suso. La violenza non è confinata a Parco Verde, ci abita tutti. E il suo sfratto inizia da questa consapevolezza.

Emanuele Caroppo – Psichiatra e Psicoanalista SPI – Dipartimento Salute Mentale Roma 2