A Roma, 13.200 sono le richieste di sostegno all’affitto 2019, chiuse nel febbraio del 2020 e da allora ferme in un cassetto. Questi i numeri emersi lo scorso gennaio dalla commissione Trasparenza, ai quali si sono aggiunte le 50mila richieste di bonus affitto 2020. Mentre la capitale si ingegna nei bandi per l’acquisto di nuovi immobili, l’attesa prevista per smaltire la lista dei richiedenti a ritmi di 450 domande all’anno è di circa 30 anni, e intanto migliaia sono le famiglie senza alloggio o destinate allo sfratto. A raccontare la drammatica realtà esistenziale dietro la custodia delle case popolari romane è Giulia Caminito nel suo terzo romanzo, L’acqua del lago non è mai dolce, edito da Bompiani, attualmente in corsa per il Premio Strega.

Alle soglie del nuovo millennio, nel degrado della periferia nord di Roma, Antonia è una donna impegnata pertinacemente nella battaglia contro le limitazioni del censo e della burocrazia capitolina. Da cinque anni, la pratica dell’assegnazione di una casa popolare per la sua famiglia stanzia inosservata, in mezzo a una pila di scartafacci, sulla scrivania di un ufficio comunale. È la ferocia di una povertà disperante, ma raccontata senza patetismi, a spingere quest’antieroina ad occupare illegalmente un appartamento di 20 metri quadri con quattro figli e un marito disabile, caduto da un’impalcatura in un cantiere illecito, dove lavorava a nero senza assicurazioni né tutele. La storia è ispirata alla tenacia di una donna reale che ha trapassato il limbo della distribuzione domiciliare e della negazione dei diritti imprescindibili di una cittadina italiana. La mancanza di una religione confortante e l’indifferenza di uno Stato tutt’altro che assistenziale fa riemergere, in questo romanzo liminale, il tradizionale binomio della giustizia sociale e della lotta di classe, evidenziando tutti i limiti delle ultime amministrazioni nella capitale.

L’acqua (mai) dolce del titolo è quella torbida e melmosa del lago di Bracciano, sul quale si affaccia il comune di Anguillara Sabazia, punto di approdo di Antonia e della sua famiglia, in seguito a una serie di escamotage al limite della legalità. Le disparità sociali istituzionalizzate, acuite dalle lungaggini burocratiche e dalla mancanza di mezzi per contrastarle, intessono tutto il romanzo di formazione/deformazione di Caminito, che segue Gaia, la figlia di Antonia, nel suo percorso di rivalsa. Tuttavia, l’istruzione superiore, la formazione letteraria e filosofica non impediscono il naufragio delle speranze famigliari di un salto di classe. Ad attendere l’infausto destino di Gaia, già presagito da un nome antifrastico, e della sua famiglia, è il G8 di Genova, l’11 settembre, la crisi finanziaria del primo decennio, l’inflazione dei titoli accademici e la svalutazione contemporanea del merito intellettuale.

L’acqua del lago non è mai dolce si insidia in prima persona in un insieme di piccole vite, storicissime pur fuori dalla Storia, che partecipano a un meccanismo sociale più grande senza averne coscienza, come se la Storia passasse dietro le loro spalle e questi ne percepissero solo il brivido. La politica trova spazio sui giornali e alla radio, negli atti di ribellione dignitosa, nello scandalo dei corpi nudi come segno di protesta contro il pudore altoborghese, nella violenza della carne, negli atti di piccola criminalità e vandalismo provinciali. La risposta ai soprusi del trionfo del capitale nei primi anni Duemila, Antonia la trova nella resistenza proletaria, in un senso di giustizia profondissimo fatto di penitenze spesso crudeli per la salvaguardia del bene comune.

Questa brechtiana Madre Coraggio – e proprio la parola “coraggio” ritorna insistentemente in tutto il romanzo, nella sua radice etimologica correlata alle funzioni del cuore – instaura una matrilinearità, puntando sulle aspettative di un dizionario che avrebbe dovuto restituire loro l’accesso a un mondo negato, le parole mancanti per emanciparsi. Laddove gli uomini sono relegati ai margini della storia, invalidati, figure cristologiche dai nomi biblici – Cristiano, Mariano, Luciano, Samuele – madre e figlia tentano con rabbia la sopraffazione di un precariato sentimentale, prima ancora che di risorse. E l’acqua di quel lago che partecipa agli scoramenti delle due “donne di sangue” è poco profonda, ha il sapore della benzina ed è sempre lì a ricordare di essere un margine senza orizzonte.