Cosa succederà ai personaggi di un romanzo molto bello una volta terminata la sua lettura? È una domanda che ci si pone solo davanti a una storia che prende la mente e il cuore, come questa scritta da Claudio Piersanti, ne “La finestra sul porto” (Gramma Feltrinelli). Una storia minima, misteriosa ma non per l’intreccio quanto per l’essenzialità narrativa e morale, la scarnificata rappresentazione di esistenze come tante, nonché per il rigore formale con cui si sviluppa la vicenda, soprattutto all’inizio, di un qualche sapore simenoniano.

Claudio Piersanti, autore forte (tra gli altri, «Il ritorno a casa di Enrico Metz», «Quel maledetto Vronskij»), di squisito mestiere, racconta questa piccola vicenda di Roberto, un legale di provincia – una cittadina sul mare non identificata (forse adriatica?) – un uomo senza troppe qualità, un solitario oramai vicino alla temibile mezza età: «Avvocato Roberto Clemente, si chiese, ma chi diavolo sei in realtà? Se lo chiedeva abbastanza spesso ma non c’erano risposte se non le banali: un avvocaticchio di provincia, un egoista pieno di segreti che però non interessavano a nessuno». Una vita vuota. Il lavoro non interessante, le facce dei clienti «apparivano ogni tanto nella sua mente come burattini ridicoli, semplici comparse con l’unico incarico di strappare un sorriso in platea. A volte si divertiva a disegnarli, nella sua agenda o in un quaderno».

Un uomo, l’avvocato, che non crede in nulla: «Tra tutte le illusioni del mondo la più patetica gli sembrava quella di chi credeva di cambiarlo. Avrebbe voluto chiedere a suo padre: insieme a chi lo volevi cambiare? Quali uomini e donne reali pensavi di coinvolgere? Come se il cambiamento non avvenisse comunque da sé ogni secondo, in tutte le direzioni, avanti, dietro, sopra, sotto, sinistra, destra. Gli esclusi non erano pochi come volevano lasciar credere, l’importante era che non diventassero troppi». Tutto vano, tutto inutile.

Poi improvvisamente una sera d’estate Roberto rivela in una mezza frase la sua antica e sin lì taciuta passione all’amica Maria, donna molto bella, molto “tutto”, fidanzata con Piero, suo vecchio sodale di scorribande giovanili, artista mezzo fallito, iracondo, tendenzialmente depresso. I due improvvisamente si trovano “falling in love”, come dicono gli inglesi, che è una bella espressione per descrivere la “caduta” in un mondo nuovo, alla maniera di due ragazzi alla scoperta di una inarrivabile felicità: «Poi si trovarono così vicini che le loro labbra finirono col toccarsi. Si scambiarono un bacio che soltanto due adolescenti di un secolo prima avrebbero potuto scambiarsi. Anche se presto il bacio si trasformò in quello normale di due innamorati, quei momenti iniziali si impressero nella loro memoria, e sarebbero diventati un segreto, nel linguaggio di Roberto. Il lungo bacio fu bellissimo per entrambi, e in queste faccende non è mai scontato, ma fu interrotto dal borbottio di una barca, che puntava dritta su di loro».

Una passione che fa rima con semplicità, passeggiate al mare, pranzetti a base di frutta fresca, amore consumato nella “tana” di lui, cioè la vecchia casa della madre nella città vecchia dove non si arriva con la macchina. Insomma, tutta un’imprevista gioia che gli piove dal cielo azzurro sul mare davanti alla finestra sul porto. Eppure c’è Piero… E Piero viene a sapere tutto, quindi la rottura, le scenate, un sentore di riconciliazione, e poi la tragedia inaspettata, gelida, come solo una finaccia violenta sa essere. Ma la vita di Roberto e Maria continua, anzi è sempre meglio: una nuova villetta proprio davanti al mare, pur con quel fantasma a popolare certi incubi d’estate…

Ora, tutto questo è materia che raccontata così non è niente o quasi. Ma qui arriva la letteratura. A partire dal nitore di una scrittura esatta ma tutt’altro che fredda. Che illumina una certa oscurità delle psicologie, che alza la speranza che tutto si risolva, come dice lui a lei nel momento più difficile della storia, ma senza scadere nell’happy end da commediola. Le ferite possono chiudersi: «Sulla tomba di Piero non c’erano fiori, e nemmeno un vaso per contenerne. Roberto ne prese uno dalla tomba vicina, vuoto e rovesciato, e andò a riempirlo d’acqua alla fontanella. “Abbiamo fatto bene a portargli dei fiori,” disse parlando piano come in chiesa. Restarono a lungo in piedi davanti alla tomba e così si consumò il loro rito. “Dovevamo farlo…”, disse lei. Roberto aveva la sensazione di essersi spinto al limite estremo di quel che era possibile fare, letteralmente sull’orlo della tomba. Perdonaci, vecchio mio, gli disse con il pensiero, non odiarci più. Anche Maria espresse un pensiero simile, si morse il labbro e arricciò il naso prima di appoggiarsi di nuovo al braccio di Roberto. “Adesso andiamo”».

E allora la finezza dei personaggi, soprattutto la figura latamente sveviana di Roberto, raggiunge livelli tali da suggerire una lettura lenta, partecipe ma non ansiosa, parola dopo parola, immagine dopo immagine: e solo alla fine di questo bellissimo romanzo di Piersanti si staglierà la circolarità perfetta e al tempo stesso inquietante della storia raccontata, dei sentimenti che la pervadono. E si resta certi che Roberto e Maria, diventati oramai una vera famiglia, continueranno a guardare il loro mare.