Caro direttore,

alcuni considerano Marco Travaglio il più temibile e influente interprete della cultura cosiddetta giustizialista. Hanno ragione? Non saprei, ma credo che non abbia senso il loro tentativo di far polemica con il direttore del Fatto quotidiano. È partita persa. Innanzitutto perché Marco Travaglio scrive e parla benissimo. La sua eloquenza, per quanto sia spesso sgravata dai rischi del contraddittorio grazie alla regia di chi gliela paga, è indiscutibilmente magnifica. Contrastarla, da parte dell’interlocutore (quando c’è) anche più attrezzato, è davvero molto difficile. Travaglio è inoltre informatissimo. I giornalisti che chiamerò normali, i politici che definirò ordinari, non dispongono né delle sue capacità di approvvigionamento documentale né del potere di contestazione che gli viene dai risultati del lavori o investigativo in cui si è specializzato. E poi quelli non godono delle invidiabili frequentazioni che invece Travaglio ha avuto il merito di coltivare; non è cosa loro andarsene in vacanza con un celebre magistrato che in santa pace, nella delizia fresca regalata dall’ombrellone e davanti al mare meraviglioso, può spiegarti tanto bene come funziona l’arte inquirente nel mondo corrotto. E soprattutto c’è il pubblico. Marco Travaglio è accreditato presso la parte più recipiente degli elettori, dei lettori, dei telespettatori; la parte di cosiddetta società civile meno disponibile alle fatiche del ragionamento, meno afflitta da qualsiasi dubbio, meno pronta non si dice ad accogliere l’opinione contraria ma neppure ad ammetterne l’esistenza e la possibilità di manifestazione. E questo è un patrimonio inestimabile nelle mani di chi appunto fa opinione, che in tal modo si vede garantita una base di consenso senza prospettive di revoca: perché quell’accreditamento non è più ottenuto grazie alle cose che dice ma grazie alla brama altrui che le dica. E davanti a questo complesso di potenza che cosa vuoi fare? Polemica? Ma quello ti fa a pezzi. C’è da mettersi in un altro modo, credo. Bisogna ammettere che non c’è partita e spiegare perché. E poi cristianamente provare a far capire che non tutti sono così. Che anche chi non sa scrivere così bene, chi non sa parlare così efficacemente, chi non ha quei compagni di vacanza che possono dare tanto insegnamento, chi non ha tanta memoria su trent’anni di verbo d’ogni Procura, chi non gode di tanta telecamera, insomma chi non è Marco Travaglio, può andare a letto un po’ meno triste quando capisce che non desidera vedere i condannati “in catene”.

Iuri Maria Prado

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