«Invece di chiedere a gran voce l’elezione di una donna a presidente della Repubblica, dovremmo tutte reclamare – subito – un piano straordinario per l’occupazione femminile». A parlare sono, Giovanna Badalassi e Federica Gentile, ricercatrici indipendenti, specializzate in bilanci di genere e fondatrici di ladynomics.it. Badalassi e Gentile provocano non a torto: siamo gli ultimi in Europa, dopo la Grecia, per occupazione femminile, con il 49% delle donne impiegate in un’attività professionale e con sempre meno lavoratrici e più casalinghe. La ragione per cui le politiche pubbliche faticano a invertire la tendenza è, secondo le due ricercatrici, il mancato utilizzo di strumenti che ne misurino l’impatto. Per esempio, quello del bilancio di genere – di cui abbiamo abbiamo già scritto – e che tuttavia risulta essere ancora largamente non realizzato.

Spiegateci meglio: perché questo strumento dovrebbe migliore il divario lavorativo tra uomini e donne?
Il diverso ruolo dell’uomo e della donna nella famiglia, nel lavoro e nella società determina bisogni diversi ai quali occorre dare una risposta proporzionata attraverso la destinazione della spesa pubblica. Il Bilancio di genere serve proprio a questo: a misurare questi bisogni.

Dove può essere sperimentato?
In ogni tipo di amministrazione: Comuni, Province, Regioni, Università, ASL, Camere di Commercio, Stato, fino ad arrivare all’Ue fino alle valutazioni – attualmente in corso d’opera – sul PNRR.

Come si scrive un bilancio di genere?
In generale tutti i bilanci di genere sono strutturati in quattro parti, ciascuna delle quali mira ad aiutare un’amministrazione pubblica a fare scelte di bilancio più consapevoli rispetto al gap di genere, cercando in primo luogo di far emergere dall’invisibilità i diversi bisogni delle donne.

Da dove si parte per la sua redazione?
Dall’analisi di contesto che spiega le differenze di genere in un determinato territorio, cercando di capire dove c’è bisogno dell’intervento pubblico: che si parli di età, famiglia, lavoro, istruzione, fragilità sociale (e violenza), pensioni, mobilità, impresa, cultura, sport, le differenze tra donne e uomini che emergono ci raccontano sempre di un importante gap legato alla condizione femminile. La maggiore responsabilità nel lavoro di cura delle donne, sia essa attuale, passata, futura o anche solo immaginata come stereotipo collettivo è un comune denominatore che spiega sempre ogni differenza.

E poi?
Nella seconda parte, il Bilancio valuta le scelte dell’amministrazione e le loro ricadute, partendo da un’analisi critica a livello dei programmi di mandato e valutando quanto l’obiettivo della parità sia (o meno) tenuto in considerazione, sia in modo diretto che indiretto.

Dopo questa valutazione, si entrerà nel merito delle scelte politiche…
Sì, nella terza fase, si cerca di capire come queste scelte si traducano in corrispondenti voci di bilancio, tenendo conto anche dei vincoli delle spese fisse che limitano le decisioni nell’allocazione delle risorse. Una riclassificazione di bilancio aiuta a far emergere dall’invisibilità o dalla scarsa considerazione voci di spesa fondamentali per le donne, come quelle per il sociale, il sostegno alla famiglia, gli asili nido, l’assistenza domiciliare ecc.

Arriviamo alla fine: ai soldi stanziati e a come si valuta la loro allocazione
Nell’ultima parte, si va a vedere come sono stati spesi i soldi, per quali servizi e chi ne sono stati i beneficiari, facendo emergere dall’invisibilità la differenza di genere anche in servizi che di solito sono considerati come neutri.

Potete fare qualche esempio concreto?
A parte le spese per gli asili nido o i centri antiviolenza, ad esempio, per le quali la lettura di genere è immediata, per altre tipologie di spesa la differenza di genere è un esercizio costante di consapevolezza. Si scopre ad esempio che tutte le spese per gli anziani hanno un impatto di genere superiore – spesso al 70% – sia che si parli di assistenza domiciliare sia che si parli di cure socio-sanitarie, dal momento che la presenza di donne tra gli anziani è superiore di molto a quella maschile. Anche i servizi non diretti alla persona rivelano differenze di genere importanti: le donne usano molto più degli uomini i mezzi di trasporto pubblico, soprattutto se anziane e senza figli da accompagnare, e sono una maggioranza significativa tra gli utenti delle biblioteche, gli abbonati dei teatri e le manifestazioni culturali.

Cosa si può dire delle donne nel loro ruolo di cura?
Nella loro dimensione di caregiver, incombe sulle donne anche l’impatto indiretto di tutte politiche rivolte a bambini, anziani o fragili: la medicina territoriale, la rete dei pediatri, la disponibilità di psicologi, l’efficienza degli ospedali sia nella prestazione sanitaria che in quella di accudimento è determinante soprattutto per la donna. Per non parlare poi della scuola e di tutti i servizi per i bambini e gli adolescenti.

Ma si può realizzare un bilancio di genere sugli investimenti indiretti?
Certo. Anche per esempio gli investimenti in infrastrutture viarie possono essere letti nella dimensione di genere rispetto al diverso impatto sull’occupazione femminile: ad oggi il lavoro delle donne è concentrato soprattutto nei servizi, in settori legati alle persone, alla relazione e al rapporto con il pubblico mentre gli uomini lavorano soprattutto nell’edilizia, il manifatturiero e tutta l’industria in generale.

In conclusione, perché il bilancio di genere farebbe crescere l’occupazione femminile?
Perché aiuterebbe a investire le risorse pubbliche in modo più equilibrato, dando maggiori opportunità di lavoro e di crescita anche alle donne: non solo un esercizio di parità ma soprattutto un impegno per una cittadinanza consapevole e una democrazia reale.

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Ho scritto “Opus Gay", un saggio inchiesta su omofobia e morale sessuale cattolica, ho fondato GnamGlam, progetto sull'agroalimentare. Sono tutrice volontaria di minori stranieri non accompagnati e mi interesso da sempre di diritti, immigrazione, ambiente e territorio. Lavoro in Fondazione Luigi Einaudi