La teoria economica ha sempre avuto un problema con il lavoro femminile. Non a caso, l’Homo Oeconomicus è, di fatto, davvero un maschio. Su di lui sono modellate tutte le caratteristiche del successo, così come configurato sin da Adam Smith: non solo è un uomo, ma è egoista, orientato alla massimizzazione, isolato. Un sociopatico, praticamente (e, devo dire, fortunatamente lontanissimo dalla realtà della maggior parte degli uomini reali che mi vengono in mente). Ad ogni modo, le donne, nel pensiero economico, fino ad una certa fase storica proprio non esistono.

A tentare di colmare questa assenza sono gli economisti della Scuola di Chicago (meglio noti per il loro sfrenato liberismo, oltre che per aver sperimentato i propri modelli sul Cile di Pinochet). È Gary Becker ad occuparsi del lavoro delle donne e, in particolar modo, di quella che potrebbe apparire come una loro discriminazione in termini salariali. E la spiegazione suona più o meno così: quando una donna in carriera finisce la sua giornata di lavoro, si occupa della casa e dei figli. Cosa fa, invece, un uomo ogni giorno al ritorno dal lavoro? Torna a casa, si mette sul divano, legge un quotidiano o guarda la TV. È naturale quindi che la donna sia più stanca. E, di conseguenza, meno produttiva sul mercato del lavoro. Quindi, non deve sorprenderci che venga retribuita di meno, anche perchè il mercato è perfetto in ogni sua declinazione e quindi non ammette falle. (Era facile, no??).

Sembrano riflessioni lontane nel tempo, ma la realtà dei fatti è che, ancora nel 2021, il tasso di occupazione femminile è considerevolmente più basso rispetto a quello maschile. Secondo i dati europei, nel 2020 il tasso di occupazione delle donne in età lavorativa (ovvero, compresa tra i 15 ed i 64 anni) è pari al 62,4%. Ma in Italia scendiamo al 49% e nel Sud Italia arriviamo perfino al 33,2%. Quanto alla disparità retributiva, possiamo citare il premier Mario Draghi, che, nel suo discorso programmatico al Senato, ha affermato che «L’Italia presenta oggi uno dei peggiori gap salariali tra generi in Europa». Stando alle stime di Eurostat infatti, in Italia la componente discriminatoria del gender pay gap ammonta al 12%.

Sulla scorta di questi dati e con l’obiettivo di avviare una controtendenza, nell’ultima Legge di Bilancio sono state introdotte alcune nuove agevolazioni che dovrebbero favorire l’assunzione delle donne. A partire dalla decontribuzione sul lavoro femminile. La Legge di Bilancio prevede un esonero contributivo del 100% a favore dei datori di lavoro che assumono nel periodo 2021-2022 donne che siano disoccupate da 6, 12 o 24 mesi, fino ad un importo massimo di 6.000 Euro all’anno. In realtà, l’esonero contributivo determinato con il nuovo bonus non è rivolto a tutte le donne, ma unicamente ad alcune categorie di donne, identificate come donne svantaggiate, come ad esempio le donne dai 50 anni di età in su che siano disoccupate da più di 12 mesi o le donne di qualsiasi età ma che siano disoccupate da almeno 24 mesi. Ma è rivolto, tra le altre, anche alle donne che risiedono nelle regioni ammissibili ai finanziamenti sui fondi strutturali europei, o a quelle che lavorano in settori ad elevata disparità occupazionale di genere.

Anche nella Strategia nazionale per la parità di genere 2021-2026, la riforma del Family Act prevede alcuni strumenti di fiscalità che dovrebbero contribuire a rimuovere gli ostacoli che le donne incontrano nel mondo del lavoro. Misure tra le quali si trova, ad esempio, la decontribuzione per assunzioni e sostituzioni di maternità, che dovrebbe mitigare la disparità nell’accesso di donne ed uomini al mercato del lavoro, rendendo meno oneroso per le aziende assumere una donna anziché un uomo. Stiamo quindi cercando di andare nella direzione giusta, a partire dalla fiscalità. Ma forse occorre soffermarsi su alcune riflessioni.

Nel quadro dell’Unione europea, la strategia per la parità di genere 2020-2025 contiene un’affermazione potente: per eliminare il gender pay gap, occorre per prima cosa risolvere le sue cause profonde e radicate. Bisogna non solo intervenire sul divario salariale e sul differenziale del tasso di occupazione, ma bisogna anche aggredire il tema del lavoro di cura non retribuito, da cui deriva l’adozione massiccia del part-time, nonché sradicare gli stereotipi che sono alla base delle discriminazioni. L’Unione europea suggerisce anche una roadmap, che prevede non solo una pianificazione degli interventi specifici rivolti ad eliminare le disuguaglianze di genere, ma anche (e qui troviamo l’innovazione) una vera e propria integrazione della questione di genere su tutti i livelli dell’azione politica, dalla programmazione all’attuazione concreta. E forse su questo piano siamo ancora in difetto.

Bene, infatti, la decontribuzione, che rappresenta senza dubbio un punto di partenza per sanare le disparità di genere sul mercato del lavoro, riconoscendo le donne come una categoria svantaggiata. Ma forse è arrivato per il nostro paese il momento di fare un salto culturale ed assumere davvero un principio di base (che ahinoi non è stato assunto neppure nel Pnrr): le donne non sono solo svantaggiate. Le donne del nostro paese rappresentano un capitale, sono più numerose degli uomini e più istruite, potrebbero contribuire alla creazione di ricchezza e di valore aggiunto. Ed il ruolo delle istituzioni dovrebbe essere anche quello di agevolare una transizione culturale che parta da questa presa di consapevolezza.