Affermata economista e saggista, Veronica De Romanis è docente di European Economics all’Università Luiss di Roma. Con lei abbiamo discusso delle sfide che attendono il governo Draghi su crescita, fisco e welfare.

Secondo i dati Istat la produzione industriale italiana conferma le attese positive e cresce. Come possiamo leggere questi dati?
Nel secondo trimestre del 2021 il Pil è cresciuto di più in Italia (2,7%) e in Spagna (2,8) con un tendenziale del 17,3%. Ma il paragone è con il 2020, l’anno del lockdown. I dati vanno interpretati correttamente: il rimbalzo è comunque evidente al punto da rivedere al rialzo le stime per l’anno in corso. Secondo l’Ufficio parlamentare di bilancio il pil crescerà del 6%. Per raggiungere questo risultato serve il grande traino della domanda interna: abbiamo investito già 180 miliardi a sostegno dell’economia, ma la vera sfida è l’impatto del Pnrr. Grazie alle risorse europee potremmo raggiungere il livello di crescita precedente la pandemia già a metà dell’anno prossimo. Ma il nostro obiettivo non può ridursi al recupero della posizione precedente. Noi dobbiamo ridurre il divario accumulato negli ultimi 20 anni con gli altri paesi europei. Prima del Covid-19 eravamo il fanalino di coda: ultimi in Europa per il livello di crescita, tassi di disoccupazione tra i più alti dopo quelli di Grecia e Spagna, il secondo peggior rapporto debito/pil dopo quello greco. L’obiettivo del Pnrr è, dunque, aumentare la nostra capacità di sviluppo potenziale per essere in linea con il resto dell’Europa.

Per realizzare il Pnrr potrebbe essere necessario aumentare le tasse?
Il Pnrr prevede due ambiti: gli investimenti e le riforme. Se si fanno insieme aumenta la nostra capacità di produrre ricchezza. Avremo a disposizione oltre 230 miliardi di euro del Next Generation Eu. Una volta fatti gli investimenti (asili nido, scuole, ospedali) dovremo trovare le risorse per far funzionare il piano (ad esempio, per pagare gli stipendi dei nuovi dipendenti). Queste risorse andranno trovate nel bilancio dello stato. Ma non con il debito che è già arrivato al 160%. Tagli dal lato delle uscite saranno inevitabili. Finanziare queste ulteriori spese con un incremento delle tasse sarebbe miope: la pressione fiscale in Italia è già molto elevata.

E allora come si fa?
La politica deve assumersi la responsabilità di un programma di lungo termine di revisione della spesa. La spending review serve non solo per trovare le coperture per far funzionare il piano, ma anche per ‘ricomporre’ la spesa. Abbiamo affrontato la pandemia con spese elevate per la previdenza (basti pensare a Quota 100), spese modeste per la sanità e molto modeste per le politiche sociali. Una composizione che va cambiata.

La sfida più grande per il governo Draghi sarà dunque la riforma fiscale: come si dovrebbe procedere?
Ridurre la pressione fiscale è fondamentale. Lo si può fare – come dice il ministro Franco – solo con una riduzione della spesa. Inoltre il sistema va semplificato. Abbiamo un numero infinito di deduzioni e detrazioni che in alcuni casi sono persino regressive: cioè favoriscono le persone più abbienti. Bisogna mettere ordine: finora non si è fatto perché toccare gli interessi di categorie di persone non restituisce consenso politico.

Draghi ricorda che l’economia italiana cresce molto più velocemente di quanto previsto, ma riuscirà a completare il suo compito?
Ci chiediamo tutti quanto durerà Draghi premier, se riuscirà ad arrivare fino alla fine della legislatura. Nel 2023 saremo nel pieno dell’attuazione del piano, con molte risorse ancora da spendere entro il 2026 e altre da trovare per farlo funzionare. Il prossimo governo sarà verosimilmente composto da politici che, a fasi alterne, hanno governato negli ultimi 20 anni, annunciando molte riforme senza però realizzarle perché costose politicamente. Bisogna capire se ci sarà la volontà politica di portare avanti il piano. Non completarlo significherebbe condannare l’Italia ai tassi di crescita asfittici degli ultimi 20 anni.

Nel quadro del Pnrr quali sono le lacune sulle quali occorrerebbe intervenire?
Noi mettiamo risorse prima di tutto su ‘verde’ e ‘digitale’. Ma l’Europa chiede anche di osservare le raccomandazioni formulate all’Italia: precisamente, aiutare i giovani e le donne a entrare nel mondo del lavoro. La pandemia ha reso la situazione ancor più drammatica. Nel Pnrr ci sono molte risorse per i giovani come quelle per rafforzare il cosiddetto “sistema duale” (alternanza scuola-lavoro) e gli istituti tecnici. La formazione deve essere una priorità. In Italia i Neet – ovvero i giovani di età compresa tra i 15 e i 29 anni che non sono occupati né inseriti in un percorso di istruzione o di formazione – sono pari al 23% mentre il dato europeo si ferma al 12%.

E nel caso delle donne?
Il tasso di occupazione femminile è di 14 punti più basso della media dell’area dell’Euro. Con la crisi il gap è destinato a salire: molte donne sono occupate nei settori maggiormente colpiti dai lockdown. Il governo ha stanziato 4,7 miliardi sugli asili nido per portare l’offerta al 33% (oggi sta al 25%). Ma si poteva e doveva fare molto di più: la percentuale di offerta di asili in Europa in media è superiore al 50%. C’è poi un altro aspetto rilevante.

Quale?
Se aumentano le donne sul mercato del lavoro aumenta anche il tasso di natalità. Invertire la decrescita demografica per noi dovrebbe essere la priorità. C’è un dato drammatico: negli anni 60 il rapporto tra bambini e anziani era in pareggio (1 a 1), oggi per ogni bambino ci sono 5 anziani. Con questi numeri, chi sosterrà le nostre pensioni, le spese per la sanità e i conti pubblici? Investire sull’occupazione femminile aiuterebbe a invertire la curva demografica. Noi invece continuiamo a pensare che la soluzione siano i bonus. In passato ne abbiamo distribuiti molti anche con una certa creatività: pensiamo al bonus “terreno” per il terzo figlio, voluto dall’allora ministro del welfare Luigi Di Maio. Ora l’attuale governo introduce l’assegno unico universale. Ma non è con i sussidi che si fanno più figli. Serve la stabilità di un lavoro e di uno stipendio.

In questi giorni si è riaperto il dibattito sul reddito di cittadinanza. Come valuta questa misura?
Nei piani del M5s il reddito di cittadinanza aveva un duplice obiettivo. Quello di ‘abolire la povertà’ è diventato noto per la frase utilizzata dal ministro Luigi Di Maio. Ma si trattava di un nonsense. I risultati sono stati relativi anche perché il sussidio non è andato ai veri poveri cioè alle famiglie numerose, agli immigrati o alle mamme single con figli a carico. Riguardo all’altro obiettivo – l’inserimento nel mercato del lavoro – i dati dimostrano che è stato un insuccesso. La percentuale di beneficiari che hanno trovato lavoro grazie al reddito di cittadinanza è davvero piccola.

Come se lo spiega?
Ci sono almeno tre motivi. In primo luogo, il reddito di cittadinanza fu lanciato in occasione delle elezioni europee quando ancora mancavano i navigator: il che dimostra che si trattava di una misura volta soprattutto alla ricerca del consenso. In secondo luogo, solo un terzo della platea dei beneficiari era “occupabile”, ossia nelle condizioni di poter lavorare: basti pensare alle madri single con figli. Infine, il modo in cui il sussidio è stato disegnato lascia troppo margine di scelta: chi lo riceve può rifiutare un’offerta perché “non congrua”: in quanto lontana da casa o non coerente con l’occupazione precedente. In un simile contesto, il bonus si è trasformato in un sussidio permanente, invece di essere un accompagnamento temporaneo.

Intanto, sono passati 10 anni dalla famigerata lettera della Bce al governo italiano. Come possiamo giudicarla oggi?
Allora la Bce comprava titoli italiani e spagnoli: aveva quindi bisogno di rassicurazioni. Oggi il contesto è completamente diverso. La politica monetaria è espansiva e il maggior beneficiario dell’acquisto di titoli di stato da parte della Bce è proprio l’Italia. In più, le regole fiscali sono sospese e si può spendere a debito. L’austerità non è richiesta: ma mi lasci ricordare che, tranne il periodo del governo Monti, non c’è mai stata traccia di austerità in Italia. La spesa è sempre aumentata. I governi hanno speso molto e male: anche per questo siamo arrivati all’appuntamento con la pandemia con un welfare non adeguato.

Quali sono, oggi, le riforme strutturali urgenti da realizzare approfittando del Next Generation EU?
Difficile fare investimenti in Italia senza riformare la pubblica amministrazione. Per fortuna, il governo ha portato a casa la riforma della giustizia. Infine serve riformare la scuola. I test Invalsi ci restituiscono la fotografia di una scuola che non forma. Durante il lockdown, siamo stati i primi chiudere la scuola e gli ultimi a riaprirla: ciò comporta una perdita strutturale di capitale umano che non recupereremo. Ma senza capitale umano non c’è crescita. La formazione deve essere una priorità. Una scuola pubblica al passo con i tempi, inoltre, è il migliore modo per ridurre le diseguaglianze. Viceversa, regalare un bonus da 10mila euro ai diciottenni – come qualcuno ha proposto di recente – è un provvedimento miope: arriva troppo tardi (la formazione comincia da piccoli) e non ha senso senza un livello di formazione adeguato dal Nord al Sud.

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient