Blocco dei licenziamenti, occupazione femminile e giovanile, investimenti europei. Per il mondo del lavoro sono settimane importanti mentre si allenta la morsa della pandemia. Ne parliamo con Tommaso Nannicini, senatore del Partito democratico. Professore di economia alla Bocconi ma con una profonda formazione socialista, Nannicini è stato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio nel 2016 e uno degli ideatori del Jobs Act.

La scorsa settimana è stata segnata dalle tensioni sul blocco dei licenziamenti. La soluzione finale è convincente? Alla lunga il blocco non rischia di essere controproducente?
In un governo di larga coalizione è normale che ci siano tensioni. Blocco dei licenziamenti e cig emergenziale sono strumenti utili per evitare di bruciare posti di lavoro che possono essere salvati una volta finita la pandemia. Prendere tempo è giusto, ma il tempo va usato bene. Abbiamo già un milione di occupati in meno: giovani, lavoratori precari, donne, partite Iva. Per loro stiamo facendo troppo poco. E preferirei si litigasse su questo non solo su strumenti per chi un lavoro già ce l’ha. Abbiamo giacimenti di sottoccupazione giovanile e femminile ai quali attingere, ma servono interventi forti. Gli incentivi per creare lavoro sono ancora troppo deboli e gli strumenti per favorire la dignità del lavoro non pervenuti.

La pandemia ha fatto esplodere l’uso dello smart working ma alcuni osservano che questa modalità di lavoro, specie nell’amministrazione pubblica, può aver provocato dei cali di produttività. Che ne pensa? Il lavoro da remoto sarà sempre più diffuso in futuro?
Penso che dovremmo fare i complimenti ai dipendenti pubblici, che sono riusciti a offrire comunque servizi anche in condizioni difficili come queste. Siamo arrivati impreparati allo smart working, non solo sul piano degli strumenti di lavoro ma soprattutto sul piano dei processi. Ma non è stato comunque un male, perché si sono abbattuti alcuni tabù legati alla paura di non riuscire a controllare la produttività. Ora bisogna ripensare i processi e cambiare l’organizzazione del lavoro, passare dalla logica del cartellino alla logica dei risultati. Per farlo c’è tanto da cambiare. Nella Pa serve sempre maggiore digitalizzazione, ma non possiamo minare l’universalismo dei servizi per essere più veloci. E su questo è importante il ruolo di prossimità che può essere svolto, per esempio, dai patronati.

Come valuta le prime misure adottate nella Pa dal ministro Brunetta?
Si è puntato a velocizzare le procedure di assunzione. Ora bisogna ripensare il reclutamento e le carriere nella Pa. Per decenni la riforma della pubblica amministrazione ha coinciso con quella del pubblico impiego, tagliando i costi con un nefasto blocco del turnover o dando qualche contentino ai sindacati. Oggi serve ripensare i processi con cui le Pa creano valore: per questo servono nuove competenze e i giovani. Gli emendamenti del Pd per migliorare il primo decreto Brunetta sono serviti proprio a questo: superare la logica per cui si accede alla Pa solo con pezzi di carta, favorendo i titolifici per chi è già nato con la camicia. Dobbiamo investire, invece, sulle competenze e su giovani bravi che hanno voglia di svolgere un servizio pubblico. Per lavorare all’Agenzia delle Entrate non devi conoscere tutti i commi di legge, servono semmai degli operatori capaci di trattare bene i cittadini. Ecco perché sono importanti la valutazione delle risorse umane e contratti d’ingresso ben pagati che formino e valorizzino i giovani, abolendo il precariato sotto forma di collaborazioni, tirocini e finte partite Iva.

L’Italia non investe abbastanza sull’occupazione femminile. Come si può rimediare?
Il vero nodo è il tempo. Dobbiamo passare da politiche della conciliazione – per cui solo le donne devono conciliare vita e lavoro – a politiche della condivisione. Grazie alle quali il tempo del lavoro retribuito e quello del lavoro non retribuito siano ripartiti in modo più equo all’interno delle famiglie. Paternità e maternità devono essere condivise. Con quali strumenti? Congedo di paternità obbligatorio a 5 mesi, congedi facoltativi di 12 mesi perfettamente paritari (6 mesi ciascuno), e tutti con una copertura retributiva maggiore e fruibili fino ai 14 anni dei figli. E ancora: part-time e lavoro agile agevolati, ma solo se di coppia. Intendiamoci: questa rivoluzione dei tempi provocherebbe uno shock sulle imprese. Pertanto, bisogna aiutarle a sostenere questi costi, con incentivi contributivi e manager della condivisione che le aiutino a ripensare la propria organizzazione. Per liberare il potenziale delle donne serve una riforma di sistema, come quella che sto per presentare al Senato e a cui ho lavorato con le amiche e gli amici dell’associazione Volare.

Di recente, Enrico Letta ha proposto una tassa sulle successioni per fornire i giovani di una dote. Le piace l’idea?
Sì, il primo a proporla è stato l’economista britannico Tony Atkinson per favorire l’emancipazione dei giovani. Certo, va disegnata bene, ma lo strumento di un’eredità universale è positivo. Ovviamente non basta il trasferimento monetario: servono percorsi di orientamento e formazione per non bruciare risorse. E serve attenzione sull’uso dell’Isee altrimenti rischiamo di tagliare fuori una bella fetta di giovani.

Il Reddito di cittadinanza ha funzionato come misura contro la povertà. Ma ha fallito sul piano delle politiche attive del lavoro.
Sì. Non aveva senso fare un ibrido tra le due funzioni. Anche perché non tutti i disoccupati sono poveri e non tutti i poveri sono occupabili. Era giusta l’idea di dare maggiori risorse al fondo (quelle del Reddito di inclusione introdotto nella legislatura scorsa erano troppo poche), ma non c’era bisogno di fare un ibrido pasticciato. Se hai perso il lavoro, lo stato non deve aspettare che perdi anche la casa per aiutarti.

Che cosa bisognerebbe fare in alternativa?
Per i disoccupati serve un reddito di formazione, una Naspi rafforzata. Basti pensare a chi perde il lavoro a cinquant’anni. Lo stato dovrebbe dire: ti prendo in carico per un percorso di orientamento e formazione; in cambio hai una garanzia del reddito che non si riduce ogni mese come la Naspi. E serve una rete di servizi: centri per l’impiego, agenzie del lavoro, sindacati e terzo settore. L’Anpal dovrebbe svolgere il compito di coordinare tutto questo. La Germania è un esempio interessante: un paese federale, ma dove gran parte delle risorse sono impegnate per garantire una forte guida centrale, tutto il contrario di quanto avviene in Italia con le regioni. La formazione deve essere un diritto soggettivo. Tempo fa un giovane mi ha raccontato che aveva svolto un corso in Emilia Romagna per fare tatuaggi. La sua ragazza abita a Pontassieve, in Toscana. Quando si è trasferito lì, non gli è stato riconosciuto il valore del corso. Non scherziamo, i diritti devono essere esigibili anche se valichi l’Appennino.

Che ruolo può svolgere il sindacato nel futuro prossimo? Non c’è il rischio che si riduca alla tutela dei lavoratori già garantiti?
Il sindacato svolge una funzione di rappresentanza quindi non mi sembra una cosa strana. La politica non può chiedere al sindacato di risolvere problemi che deve risolvere lei. D’accordo con Letta e Orlando, ritengo che sia arrivato il momento di un patto per il lavoro. Un patto non un piano. Per chiedere uno sforzo in più ma sulla base di impegni condivisi. La qualità del lavoro non si crea magicamente con il Pnrr. Non basta dire che servono gli investimenti privati e quelli pubblici e poi magicamente si crea lavoro. Ci sono filiere produttive che si reggono sullo sfruttamento del basso costo del lavoro. Bisogna innalzare la qualità del lavoro e attivare le politiche della formazione. E servono strumenti per sostenere la buona contrattazione collettiva e la partecipazione dei lavoratori alle aziende.

Come valuta il programma europeo Sure per la tutela dei disoccupati? Il Next Generation Eu può diventare la base per una politica fiscale comune?
Sure ha abbattuto due tabù: il debito comune e la condivisione dei rischi. Ngeu è un enorme sforzo per creare un bilancio comune. Per anni abbiamo litigato sugli eurobond, alla fine li abbiamo fatti, pressati dalla pandemia. Ngeu deve essere l’embrione di una politica fiscale comune: alla Conferenza sul futuro dell’Europa bisognerebbe parlare di questo, non di cose astratte. Come fu per il New Deal, Ngeu rappresenta un cambio epocale. Attenzione però, molto dipende da noi. Se l’Italia spende male questi soldi, c’è il rischio di una crisi di fiducia a livello europeo. Dobbiamo usare bene questa opportunità: per noi, certo, ma anche per tutti gli europei.

Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient