Quali trasformazioni ha subito il mondo del lavoro a causa della pandemia? Quali misure bisognerà adottare per rispondere alla sfide emergenti? I lockdown hanno modificato le abitudini, ma il cambiamento era già evidente prima che il virus irrompesse nella vita quotidiana di milioni di lavoratori. Lo ricorda un quaderno della Fondazione Per – Progresso, Europa, Riforme, pubblicato in questi giorni con il titolo: “Come cambia il lavoro dopo la pandemia”, a cura di Francesco Luccisano, fondatore di “Allavoro.eu”.

Covid-19 ha valorizzato i lavori di cura: genitori e nonni sono rimasti a casa per dedicarsi ai più piccoli senza scuola o agli anziani soli. Allo stesso tempo, l’uso generalizzato del lavoro da remoto – almeno 8 milioni di lavoratori coinvolti – si è svolto senza grandi differenze rispetto alle dinamiche tradizionali del lavoro subordinato, se non per la collocazione fisica del dipendente. In realtà, come spiega in uno dei contributi del quaderno Francesco Seghezzi, presidente di Adapt, l’associazione che studia le relazioni industriali fondata da Marco Biagi, il mondo del lavoro «è completamente mutato a causa di trasformazioni tecnologiche, demografiche e globali». E il binomio lavoro subordinato-lavoro autonomo intorno al quale si è costruito il diritto del lavoro moderno era in crisi già prima della pandemia. Questo dualismo giustificava una diversità di tutele e nessuno si sognava di avanzare richieste di ammortizzatori sociali per il lavoro autonomo. Ma il lavoro, continua Seghezzi, «si è frammentato, alimentando aree grigie tra autonomia e subordinazione da un lato, e cambiando la struttura stessa del lavoro subordinato e del lavoro autonomo dall’altro». Tutto ciò pone un problema di giustizia sociale «per l’ampia quota di lavoro non standard che, con picchi tra i giovani e le donne, caratterizza il mercato del lavoro italiano e non solo».

Inoltre, come spiega nel quaderno della Fondazione Per Michele Faioli, docente dell’Università Cattolica e consigliere del Cnel, «il lavoro è molto di più di una delle risorse del mercato perché nello svolgimento di un lavoro si trova, da una parte, tutto ciò che attiene alla professionalità, al salario, al talento, alla formazione, alla laboriosità, e, dall’altra, l’esistenza stessa della persona e del relativo nucleo familiare, con inclinazioni e progetti, realizzati e da realizzare». Ciò chiede a tutti i soggetti coinvolti, a partire da chi fa le leggi fino al sindacato e alle imprese, uno sforzo di immaginazione. «Una regolazione equilibrata del lavoro nasce dal potere dell’immaginazione», assicura Faioli: «le grandi riforme del nostro paese che hanno riguardato il diritto del lavoro e la previdenza sociale nascono da visioni pluriennali, di lungo periodo, progettazione dell’Italia nell’Europa sociale, dalla consapevolezza che il sistema di protezione sociale deve garantire chi c’è oggi, ma anche chi ci sarà domani. Il legislatore è ancora bloccato dall’emergenza, non guarda oltre».

Una tessera fondamentale del mosaico di misure necessarie per rispondere a questo sforzo di immaginazione è certamente quello della formazione dei lavoratori. «La pandemia ha forzato gli argini e vinto indugi e remore, mettendoci tutti davanti alla sfida di sviluppare la competenza forse più preziosa, quella di saper apprendere continuamente», avverte Alessandra Spagnolo, Business Development Manager di Mylia, l’organizzazione del gruppo Adecco specializzata nella formazione dei lavoratori. Si tratta di investire sempre di più sul «miglioramento dei fattori che determinano l’occupabilità delle persone, sin dalla consapevolezza di quali sono le competenze richieste oggi dal mondo del lavoro». Più in generale, è arrivato il momento di dare il giusto rilievo a tutte quelle politiche attive del lavoro di cui si parla da anni ma che ancora si fa fatica a mettere in campo.

Lo spiega bene nel suo saggio Tommaso Nannicini, economista della Bocconi e senatore del Partito Democratico: «Per i disoccupati, i veri dimenticati degli interventi emergenziali durante la pandemia, ci sono Naspi e Dis-coll da potenziare, facendole confluire in un unico ‘reddito di formazione’. Rovesciandone la logica attuale. Non più sussidi con condizionalità che nessuno controlla, ma un percorso fatto di bilancio e certificazione delle competenze, orientamento, formazione e sostegno alla mobilità». Per Nannicini, «il reddito di formazione non prevede la forte riduzione mensile della Naspi, fornisce una copertura più lunga agli over 50. Ed è più facile da ricevere per i giovani in cerca di prima occupazione: questi non devono aspettare 4 anni di contribuzione piena prima di ricevere una garanzia del reddito che permetta loro di formarsi e mettersi in gioco».

Ma in questo nuovo mondo del lavoro che si prepara che ruolo potrà ancora giocare il sindacato? Sul punto, è molto chiaro il saggio di Pietro Ichino, giuslavorista dell’Università di Milano. Nel tempo della globalizzazione, dell’automazione e della rete il sindacato non può più limitarsi «a negoziare il ‘catalogo dei diritti’ dei lavoratori nel contratto collettivo nazionale e poi a controllarne la corretta applicazione in periferia». Il compito principale del sindacato 4.0 dovrà essere, secondo Ichino, «quello di consentire la partecipazione attiva delle persone all’impresa e alla divisione dei suoi frutti. Che non può avvenire se non al livello dell’impresa medesima e con un forte aumento del peso della contrattazione aziendale nel sistema delle relazioni industriali».

In pratica, Ichino – che ha sviluppato questa proposta anche nel recente volume L’intelligenza del lavoro – invita a ragionare su di un «duplice livello di adesione della singola persona all’associazione sindacale», cui corrisponde una «duplice funzione del nuovo sindacato»: il servizio alle persone nel mercato e il servizio alle persone dentro l’impresa. La sfida è aperta. Il sindacato sarà pronto a raccoglierla?

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