Cassandre dei nostri tempi, lo ripetiamo da quasi due anni: si riparta dal lavoro femminile. E non solo perché la pandemia, com’è ormai noto, ha colpito prevalentemente quei settori relazionali, ovvero i servizi, nei quali è occupata la maggior parte delle lavoratrici del paese. Ma anche perché di fronte all’incertezza (che in economia chiamiamo “variabile killer”, perché non ci consente di prendere decisioni pienamente razionali), si è configurato sin dal principio della pandemia un rischio sostanziale: che ad essere lasciate indietro sul mercato del lavoro fossero, ancora una volta, le donne. E sfortunatamente, anche questa volta i dati ci hanno dato ragione.

Il 2 dicembre 2021, l’Istat ha pubblicato la nuova rilevazione mensile sulle forze lavoro che, ad una prima lettura, appare incoraggiante. Nel mese di ottobre, i nuovi occupati rispetto al mese di settembre sono aumentati di 35.000 unità. Ma i nuovi occupati sono tutti uomini. Diciamolo meglio: a crescere è stata soltanto l’occupazione maschile, mentre quella femminile ha mostrato una crescita pari a zero. E allora è necessario andare a leggere i dati delle variazioni non solo su base mensile, ma anche su base annua. Rispetto ad ottobre 2020, sono stati 271.000 i nuovi posti di lavoro per gli uomini e solo 118.000 per le donne. In altri termini, nel corso dell’ultimo anno, oltre due terzi dei nuovi posti di lavoro sono andati a uomini. Ancora una volta, il tema è complesso, ma una delle variabili fondamentali sembra essere quella della maternità, che sia effettiva o potenziale. Ancora più propriamente, parrebbe confermarsi l’esistenza della cosiddetta childhood penalty, ovvero della penalizzazione che le donne sperimentano sul mercato del lavoro a causa della maternità e delle normative ad essa connesse.

Come evidenziano anche i dati Eurostat sul 2020, in generale la presenza di bambini in famiglia incide negativamente sul tasso di occupazione femminile. Ma in particolare, l’Italia è uno dei paesi nei quali il tasso di occupazione delle donne con figli è più basso in assoluto, attestandosi al 57,3%. Così, mentre nella media dell’Unione Europea della forza lavoro di età compresa tra 25 e 54 anni è occupato il 76,8% delle donne senza figli e l’80,9% degli uomini nella stessa condizione, quando osserviamo il dato relativo alle persone con figli, le proporzioni si invertono. Ovvero, il tasso di occupazione delle donne diminuisce, arrivando al 72,2% (ed ecco l’effetto della childhood penalty), mentre il tasso di occupazione degli uomini aumenta, arrivando al 90,0% (ed ecco l’effetto, di segno opposto, del paternity bonus: quando un uomo diventa padre, gli si attribuisce tradizionalmente la responsabilità del sostentamento economico della famiglia e quindi il mercato del lavoro lo premia). Non solo: il paternity bonus aumenta all’aumentare dei figli ed infatti il tasso di occupazione più elevato viene rilevato proprio per gli uomini con due figli (92,4%).

Un ulteriore elemento di riflessione: stando sempre ai dati Eurostat, sono Italia, Grecia e Spagna i paesi che penalizzano maggiormente sul mercato del lavoro le donne che hanno figli. È allora indubbio che vi sia un problema culturale, legato anche (se non, soprattutto) a quello che in letteratura è stato codificato come il modello di welfare mediterraneo, nel quale le donne della famiglia (che siano madri, nonne, zie) si prendono cura, non retribuite, degli altri componenti.  Rafforzando in questo modo alcuni dei più radicati meccanismi di povertà: le donne non lavorano, quando lavorano guadagnano di meno, hanno più spesso contratti più fragili e posizioni part-time. Tutto ciò si traduce in un più elevato rischio di povertà rispetto ai concittadini maschi, ad una condizione di fragilità con cui sono costrette a scendere a patti per tutta la loro vita (secondo i dati Eurostat 2019, le pensioni delle donne italiane di età superiore ai 65 anni sono il 33% inferiori rispetto a quelle degli uomini).

E correrò il rischio di fare un’affermazione banale: se all’interno di un paese un gruppo è più povero, anche l’intero paese è più povero. E non solo l’Italia è effettivamente un paese meno ricco di quanto potrebbe essere (e qui si pone un fondamentale tema di efficienza), ma è anche un paese più fragile sotto il profilo demografico. Ormai è consolidata dai dati, infatti, la correlazione tra basso tasso di occupazione femminile e basso tasso di natalità. Non sarà un caso, quindi, che in Italia, Grecia e Spagna, secondo il Regional Yearbook 2021 di Eurostat, si trovano i tassi di fertilità più bassi d’Europa.

Cosa stiamo perdendo, quindi? Tutto: il rilancio del paese (di cui le donne rappresentano il principale capitale umano, in quanto si laureano prima e con voti più alti); la transizione culturale necessaria per non mancare le occasioni di crescita economica, ma anche di sviluppo; le possibilità di arrestare il declino demografico. E cosa possiamo fare? Non limitiamoci ad osservare quanto sta accadendo con sguardo rassegnato. Perché una cosa ormai è chiara: tutto questo non è normale.